giovedì 23 luglio 2020

Disposizioni sceniche per Aida ed Otello


Per conoscere, studiare ed approfondire il pensiero verdiano è molto istruttivo visionare le 'Disposizioni sceniche' per "Aida" (Ricordi, 1873) ed "Otello" (Ricordi, 1891-1900).
Buona lettura - e meditazione - a voi tutti: musicisti, registi ed ascoltatori!!!

DISPOSIZIONE SCENICA PER L'OPERA AIDA
--> https://www.digitalarchivioricordi.com/it/iconografia/13667

DISPOSIZIONE SCENICA PER L'OPERA OTELLO

Théâtre-Italien. Aïda, grand-opéra en quatre actes de G. Verdi, Acte deuxième (L'Univers illustré, 1876)

Paris. — Aïda, opéra de Verdi, au Théâtre-Italien. — Le temple de Vulcain. — Mort de Radamès et d'Aïda. — Fin du quatrième acte. (1876)

Il Maestro VERDI dirige l'orchestra de l'Opéra alla prima rappresentazione di AIDA (Le monde illustré, 3 Avril 1880)

mercoledì 22 luglio 2020

Aspetti scenici pensati da Verdi collegati sempre alle sue note musicali (Rigoletto)


In merito a Rigoletto, il 14 dicembre 1850, Verdi scrive al presidente della Fenice a proposito delle modifiche imposte al libretto di Rigoletto. Tra le altre rimostranze sbotta a proposito della scena finale:
"Non capisco perché siasi tolto il sacco! Cosa importava del sacco alla Polizia? Temono dell'effetto? Ma mi si permetta di dire: perchè ne vogliono sapere in questo più di me? Chi può fare da Maestro? Chi può dire questo farà l'effetto, e quello no? [...] Tolto quel sacco non è probabile che Triboletto parli una mezz'ora al cadavere prima che un lampo venga a scoprirlo per quello di sua figlia. Osservo infine che s'è evitato di fare Triboletto brutto e gobbo! Un gobbo che canta? Perchè no?... Farà effetto? Non lo so; ma se non lo so io, non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposto questa modificazione. Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente difforme e ridicolo e internamente appassionato e pieno d'amore. Scelsi appunto questo soggetto per tutte queste qualità, e questi tratti originali; se si tolgono, io non posso più farvi musica. Se mi si dirà che le mie note possono stare anche con questo dramma, io rispondo che non comprendo queste ragioni, e dico francamente che le mie note, belle o brutte che siano, non le scrivo mai a caso e procuro di darvi sempre un carattere."

Proibizione verdiana di fare nello spartito di Jérusalem qualunque intrusione o mutilazione


"Resta proibito di fare nello spartito qualunque intrusione o mutilazione (ad eccezione dei ballabili che si potranno levare), sotto la multa di mille franchi che io esigerò da te ogni qualvolta questo spartito venga fatto nei teatri d'altro cartello. Nei teatri di second'ordine la clausola esisterà parimenti e tu sarai obbligato studiare tutti i mezzi possibili onde esigere la multa in caso di contravvenzione: però, se tu non potrai esigerla, non sarai obbligato a pagarmela. Addio, addio!"

(da una lettera di Verdi a Giovanni Ricordi - Parigi, 15 ottobre 1847 - in merito alla sua opera "Jérusalem")

Varianti introdotte dalla Patti nella Traviata (1877)


ADELINA PATTI (biografie e ritratti) :

"Ella è così grande nel recitativo che nel canto di portamento e nell'allegro più brillante. Nella "Traviata" fu somma anche come artista della passione e della verità drammatica. Bisogna averla veduta allorchè Alfredo le getta la borsa, bisogna averla udita nell' "Addio del passato", per esserne convinti. Ella si permette, ma rarissime volte, d'introdurre qualche variante nell'originale, come la seguente (scritta dal maestro Pietro Romani per la Piccolomini a Firenze,) nell'andante della sua aria e l'altra nelle cadenze che precedono le due cabalette, sostituendo un la bemolle efficacissimo al Mi bemolle scritto da Verdi. Colla seguente variante di 'terzina' nel duetto: "Parigi, o cara" in luogo delle due note destò l'ammirazione di tutti."

(A. Galli in: "Emporio pittoresco", anno XIV. N. 690 - dal 18 al 24 novembre 1877)

La Patti alla Scala nel ruolo di Violetta (1877) - "UNA NUOVA E DIVINA CREAZIONE"


LA PATTI ALLA SCALA in Traviata:

La Penco, la De Giuli, la Frezzolini, avevano fatto in altri tempi, una creazione di questo spartito verdiano, che certamente non tiene uno dei primi posti fra i capolavori dell'illustre compositore.
Quando avessi detto che la Patti l'altra sera fece dimenticare quante la precedettero, avrei detto tutto; essa ne fece "una nuova e divina creazione"; trovò effetti sorprendenti nei punti più inconcludenti del dramma e fece risaltare scene che per altre artiste non uscivano dal più volgare convenzionalismo, nel popolare spartito.
La sua voce abbastanza estesa, è sonora, vibrata, squillante e si espande nell'ampia sala, cosa della quale gli intransigenti e gli incontentabili dubitavano assai. - Dicevan costoro: la voce della Patti non è voluminosa quanto occorre pel vasto recinto della Scala. - Come s'ingannavano! - Nei più lontani posti del teatro la voce della Patti giugne squillante, omogenea, limpida; l'intonazione è perfetta; l'agilità sorprendente. - Al primo suo apparire sulla scena vi fu un tentativo di applauso per salutare colei che veniva a noi preceduta dalla fama mondiale di celebrità. Questo tentativo fu represso tosto; alcuni vollero biasimare questo atto di quasi ostile severità nel pubblico milanese. (...)
Dopo ciò la Patti comincia a cantare. Il silenzio regna profondo nell'ampia sala, che è discretamente affollata. Qua e là di quando in quando il silenzio è rotto da qualche esclamazione di "brava". E' applaudito il duetto col tenore; nell'aria e nella cabaletta che seguono, la Patti entusiasma, sorprende coi suoi effetti di voce e specialmente col suo trillo, che eseguisce correndo dalla ribalta al fondo della scena.
Questa eccezionale artista che aveva trionfato davanti a tutti i pubblici del mondo, era visibilmente commossa e la si vedeva chiaramente invasa da un po' di panico, compresa della situazione, trovandosi dinnanzi al tribunale supremo. Ma dopo il primo atto non più reticenze; il giudizio era pronunciato ed anche a Milano Adelina Patti era proclamata la Diva dell'arte lirica.
Nel secondo atto ha poca parte ed il pubblico la attende alla seconda prova: al finale del terzo ed all'ultimo atto dove l'artista giudicata come cantante ha bisogno ancora di mostrarsi quanto valga come artista. - La Patti comincia al finale del terzo, alla scena della borsa a rivelarsi. Fa vedere come bene comprenda la situazione eminentemente drammatica. - A questa scena il pubblico si scuote ed applaude.
Siamo all'ultimo atto.
Si diceva: la Patti è fredda; la Patti cadrà all'ultimo atto della "Traviata" poichè non sente il dramma: la sua voce è un fenomeno, ma in lei manca il sentimento. - Come si sono ingannati una seconda volta! - Nel duetto con Alfredo, ella riveste il suo canto dell'accento drammatico il più efficace. Con quanta passione disse la frase: "Mai più dividermi". A questo punto il pubblico non sa più frenarsi, irrompe nel più entusiastico degli applausi, e vuole il "bis" del primo tempo del duetto.
La Patti è sublime in tutto il resto dell'atto e muore da grande artista.
Eseguì quest'atto come forse la sola Marini, insuperabile nella "Signora dalle Camelie", avrebbe potuto interpretarlo. Dopo l'opera s'ebbe sette chiamate fra gli applausi i più entusiastici che mai abbiano echeggiato nella sala del nostro massimo
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E qui non posso che ripetere, con un mio egregio collega, che in questo tempio, dove la Lalande, la Pasta e la Malibran, aprirono la via al moderno melodramma; dove la Frezzolini lo mantenne e la Galletti lo sublimò, era giusto, che la Patti lo chiudesse.
Mi resta ora a parlare degli altri artisti che furono compagni alla Patti. - Il tenore Nicolini ed il baritono Giraldoni sono pur essi due valenti campioni dell'arte. - Ebbero entrambi momenti felicissimi, specialmente il Nicolini al duetto del primo atto, alla scena della borsa ed al finale. Essi completarono il quadro in cui giganteggia la Patti.

("Asmodeo, monitor artistico-teatrale", Milano 17 novembre 1877 - anno VI. - Numero 22)

L'educazione musicale della Patti, secondo la testimonianza di Emanuele Muzio


- "L'educazione musicale della Patti" -

Signore,
Nel "Times" del 26 luglio si asserisce che Adelina Patti imparò la musica ed il canto da un professore ungherese. Permettetemi, o signore, di stabilire la verità, essendo io stato il suo primo direttore musicale e d'orchestra all'Accademia di musica di Nuova-York, quando per la prima volta essa vi cantò nella sera del giorno di rendimento delle grazie (Tanks giving Day), giovedì, 24 novembre 1859.
Essa non ebbe mai un maestro ungherese. Il suo primo maestro di musica fu, quand'essa era ancora fanciulla, la signora Pavaralli, una prima donna italiana; indi i suoi fratellastri Antonio ed Ettore Barili. Il primo morì a Napoli or sono alcuni anni, ed il secondo è tutt'ora vivente ed esercita la professione di maestro di canto a Nuova-York.
Nell'anno 1859 i signori B. Ullmann e Maurizio Strakosch erano impresari associati dell'Accademia di musica. Le prime donne scritturate da quest'ultimo in Europa, Crescimanno e Speranza, fecero fiasco.
In tali tristi circostanze, la sorella di Adelina, madama Strakosch, suggerì l'idea di far esordire la sua piccola sorella. Il marito vi si oppose dicendo che era troppo giovane. Io fui chiamato al teatro, ed essendo direttore d'orchestra, fu lasciato a me il decidere, e dopo aver udito un solo pezzo cantato da lei, diedi la mia decisione favorevole per il debutto.
Strakosch era invariabile nella sua opposizione, ed ullmann disse: "Io fo come Ponzio Pilato. me ne lavo le mani; se avrà lieto successo, meglio per voi". I patti della scrittura furono stabiliti col suo patrigno Salvatore Barili, e la paga fu fissata in 100 dollari per rappresentazione. Cominciai allora ad insegnarle la lucia di Donizetti nella casa di Strakosch. Appena seppe la parte, ordinai una prova al pianoforte cogli altri artisti, che erano Brignoli, tenore, Amodio, baritono, Coletti, basso. Tutti gli artisti rimasero incantati e sorpresi per la bellezza della sua voce. Alla prova d'orchestra sorprese tutti, ed ebbe una vera ovazione dai professori. Alla prova generale, alla quale furono invitate centinaia e centinaia di persone, produsse la più grande sensazione; ed alla prima rappresentazione, 24 novembre 1859, destò grande entusiasmo, e dovette ripetere il finale e la scena della maledizione.
Dopo averle insegnato la "Lucia", le insegnai la "Sonnambula". Indi il signor Manzocchi, maestro di canto di molto talento, le fece imparare il "Barbiere", i "Puritani", ecc. Il di lei successo non venne mai meno, durante le due stagioni che cantò all'Accademia di musica.
La conclusione è questa: che Adelina Patti non venne educata nella musica da un maestro ungherese, ma da maestri italiani, che soli posseggono la vera tradizione della buona scuola di canto, e furono la signora Paravalli, Ettore ed Antonio Barili, Muzio e Manzocchi.

Credetemi vostro servitore devoto
Emanuele Muzio

già direttore musicale dell'Accademia di musica di Nuova-York, degli Italiani a Parigi, a Milano, Venezia, Bologna, ecc.

(Gazzetta Musicale di Milano, 17 agosto 1884)


La "messa di voce" (<>) insegnata ad Adelina Patti da Barili e Paravelli


La "MESSA DI VOCE" (<>) - insegnata alla Patti - assieme a ornamentazioni, abbellimenti, scale, volate ed agilità varie, costituiscono la base dell'antica scuola italiana di canto:

Both Ettore Barili and Signora Paravelli (...) taught her how to breathe, how to sustain tone with what Italians call the "messa di voce" (swelling and diminishing on single notes), how to execute scales and runs—in fact, all the exercises for agility, the ornaments and embellishments, that form the foundation of the old Italian school.

(Adelina's First Teachers—Ettore Barili and Signora Paravelli —What They Taught Her - CHAPTER III - "The reign of Patti", by Hermann Klein ... illustrated with photographs - New York: The Century co., 1920)

Esortazione verdiana rivolta al suo allievo Emanuele Muzio





"(...) Rispettate e fatevi rispettare: mai un'ingiustizia e mai una debolezza: trattate egualmente i più alti come i più bassi, non abbiate predilezione per nissuno, non abbiate simpatie, né antipatie, e non abbiate nemmen paura di qualche maledizione. (...)"

(Giuseppe Verdi, lettera ad Emanuele Muzio - 20 giugno 1870)

[Nell'immagine: "Il maestro Emanuele Muzio sul podio", ritratto di Emanuele Muzio realizzato da Giovanni Boldini nel 1892]

Verdi ed il "Caino" di Giovanni Duprè


Giuseppe Verdi ed il "Caino" di Giovanni Duprè:

In quel tempo venne a Firenze Giuseppe Verdi per mettere in scena il "Macbeth". Se non isbaglio, era la prima volta ch'ei veniva fra noi; la sua fama lo aveva preceduto; nemici, com'è naturale, ne aveva dimolti; io era partigiano dei suoi lavori allora conosciuti, il "Nabucco", i "Lombardi", l' "Ernani" e la "Giovanna D'Arco". I nemici suoi dicevano che come artista era volgarissimo e corruttore del bel canto italiano, e come uomo lo dicevano un orso addirittura, pieno d'alterigia e d'orgoglio, e che sdegnava di avvicinarsi a chicchessia. Volli convincermene subito; scrissi un biglietto in questi termini: «Giovanni Duprè pregherebbe il chiarissimo maestro G. Verdi di volersi degnare a tutto suo comodo di recarsi al suo Studio, ove sta ultimando in marmo il "Caino", e desidererebbe mostrarglielo prima di spedirlo.» ― Ma per vedere fino a che punto era orso, volli portar la lettera io stesso e presentarmi come un giovane di Studio del professore. M'accolse con molta urbanità, lesse la lettera, e poi con volto nè ridente nè serio mi disse:
― Dica al professore che lo ringrazio molto, e il più presto che mi sarà possibile andrò a trovarlo, giacchè io avevo in mente di conoscere personalmente un giovane scultore, che.... ec. ―
Risposi: ― Se ella, signor maestro, ha voglia di conoscere il più presto possibile quel giovane scultore, può soddisfarsi subito, giacchè sono io. ―
Sorrise piacevolmente, e stringendomi la mano disse: ― Oh! questa è proprio da artista. ―
Parlammo a lungo, e mi mostrò alcune lettere di presentazione ch'egli aveva pel Capponi, pel Giusti e pel Niccolini; quella pel Giusti era del Manzoni. Tutto il tempo ch'egli restò in Firenze ci vedemmo quasi ogni giorno; facemmo qualche gitarella nei dintorni, come a dire alla Fabbrica Ginori, a Fiesole e alla Torre del Gallo. Eravamo una brigatella di quattro o cinque: Andrea Maffei, il Manara che poi morì a Roma, Giulio Piatti, il Verdi ed io; la sera ei ci permetteva di andare or l'uno or l'altro alle prove del "Macbeth"; la mattina spessissimo egli e il Maffei venivano al mio Studio. Gustava assaissimo la pittura e la scultura, e ne parlava con acume non ordinario; preferiva singolarmente Michelangelo, e mi ricordo che alla Cappella del canonico Sacchi che è sotto Fiesole per la strada vecchia, ove si ammira una bella raccolta di opere d'arte, restò quasi un quarto d'ora in ginocchio per ammirare un "paliotto" dell'altare, che si dice lavoro di Michelangelo. Volevo fargli il ritratto, ma poi per cagioni indipendenti dalla sua e dalla mia volontà non potè effettuarsi questo disegno, e mi contentai di formare la sua mano, che poi scolpii e regalai alla Società Filarmonica Senese, alla quale appartengo fino dal quarantatrè, nel quale tempo mi recai a Siena, come ho narrato più addietro. La mano del Verdi è nell'atteggiamento di scrivere; nel levare la forma la penna restò ivi incastrata, ed ora serve di bastoncino ad un mio bozzetto di "Sant'Antonino".
Del mio "Caino" parve contento; quella fierezza quasi selvaggia gli andava a sangue, e mi ricordo che il Maffei si studiava persuaderlo che dalla tragedia "Il Caino" del Byron, che appunto in quel tempo ei traduceva, potea levarsi un dramma di molto effetto per le situazioni e i contrapposti, nei quali il genio e l'indole del Verdi amano spaziare. Il carattere mite e pio di Abele di contro a quello di Caino ferocemente preso d'ira e d'invidia per l'offerta d'Abele gradita al cielo; nel contrasto tra loro; Abele che carezza il fratello e parlagli di Dio, e Caino che rigetta sdegnoso le dolci parole rivolgendo fin contro Dio blasfemi; coro d'Angeli invisibili in aria, coro di Demoni sotto terra; Caino che accecato dall'ira uccide il fratello, poi la madre accorsa alle grida d'Abele che lo trova morto, poi il padre, poi la giovane sposa d'Abele, il dolore di tutti per la morte di quel giusto, l'orrore per l'uccisore, il rimorso cupo, profondo di Caino, e infine la sua maledizione; formavano un tutto veramente degno del genio drammatico e biblico di Giuseppe Verdi. Mi ricordo che in quel tempo ei n'era invaghito, poi non ne fece più altro, e avrà avuto le sue buone ragioni. Forse le nudità erano uno scoglio, ma colle pelli di belve si fanno tuniche e manti sommamente pittorici; e ad ogni modo potea musicare il soggetto, quando questo veramente gli offriva situazioni, effetto e attrattiva, perchè il Verdi ha mostrato nelle molte sue opere possedere quel genio sublimemente fiero, adatto a quel tremendissimo dramma; egli, che seppe trovare entro di sè le grandi e serie melodie del "Nabucco", i mestissimi canti del "Trovatore" e della "Traviata", e il color locale, il carattere e le armonie sublimi dell' "Aida", egli poteva musicare il "Caino". Se un giorno il Verdi leggerà queste carte, chi sa? (...)
Mi ricordo (...) che un giorno il Rossini parlando meco in tutta confidenza dell'arte in generale, sul quale argomento e sulle ragioni tutte di essa era giudice sicuro, venendo pian piano a parlare della musica e dell'indole particolare dei maestri da lui conosciuti, riguardo al Verdi uscì in queste parole : ― Vedi, il Verdi è un maestro che ha un carattere melanconicamente serio; ha colorito fosco e mesto e che scaturisce abbondante e spontaneo dall'indole sua ed è apprezzabilissimo appunto per questo, ed io lo stimo assaissimo; ma è altresì indubitato ch'ei non farà mai un'opera semiseria come la "Linda", e molto meno una buffa come "L'elisir d'amore". ―
Ed io aggiunsi: ― Nè come il "Barbiere". ―
Rispose: ― Me lasciami stare, non c'entro per nulla. ―
Queste parole mi disse ventidue anni or sono nello Studio mio di Candeli, e l'opera buffa o semiseria il Verdi non l'ha ancor fatta e credo non ci abbia neppur pensato; ed ha fatto bene. Dunque l'arte musicale e l'Italia attendono da lui il "Caino", e l'attendono, perchè egli stesso sentì la volontà e la forza di volerlo fare.

(dal cap. IX. di "Pensieri sull'arte e ricordi autobiografici" di Giovanni Duprè, 1879)

[Nell'immagine: a sinistra: Copertina del libro di Giovanni Duprè - "Ricordi autobiografici" - Firenze, 1879; a destra: il "Caino" (1846) di Duprè - Galleria Palatina (Palazzo Pitti), Firenze]

Dinamiche e agogiche regolate con sapienza da un unico direttore secondo Angelo Mariani


"Non basta fare tutti i 'forti', tutti i 'piano' e tutti i 'crescendo', non basta misurare i tempi col Metronomo. Vi è una grande differenza da forte a forte, da piano a piano, da crescendo a crescendo; come un pezzo di musica eseguito nello stesso movimento può presentare colore diverso a seconda dell'accentuazione e di quel non so che, che si può far sentire, che si può spiegare all'atto pratico, ma che però non è possibile indicare co' segni musicali. (...) E' errore poi sommo quello di avere in teatro un maestro concertatore e un direttore d'orchestra. Se il secondo deve star soggetto al primo, non produrrà che l'aspetto d'una macchina: è brutto affidare a una macchina tutto l'edifizio di un'opera in musica! Se è un vero direttore deve anche dirigere e regolare tutto, allora si avrà unità nell'esecuzione, nel concetto e nell'interpretazione... (...)"

(da una lettera di Angelo Mariani del 12 gennaio 1862)

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Angelo Mariani (Ravenna, 11 ottobre 1821 – Genova, 13 giugno 1873) è stato un celebre direttore d'orchestra italiano.
Diresse alcune prime rappresentazioni mondiali di vari grandi compositori: di Verdi l' "Aroldo", rivisitazione di "Stiffelio", il 16 agosto 1857 al Teatro Nuovo di Rimini, e la prima italiana del "Don Carlo", il 27 ottobre 1867, al Teatro Comunale di Bologna.

Vocalità del tenore Carlo Guasco, primo interprete verdiano nei Lombardi, in Ernani e in Attila


Vocalità del tenore CARLO GUASCO, PRIMO INTERPRETE VERDIANO (allievo di Giacomo Panizza, che aveva studiato con Vincenzo Lavigna insegnante di Verdi, cantò dal 1836 al 1853 in Italia e a Parigi, Londra, Madrid, San Pietroburgo e Vienna - successivamente insegnò canto, tra i suoi allievi spicca il nome del tenore alessandrino G.B. De Negri):

--> considerazioni generali sull'arte vocale-attoriale di Carlo Guasco:

"Nel 'Giuramento' di Mercadante (...) si è distinto il tenore sig. Guasco. Egli è lodato per un porgere naturale, scevro di affettazione e di manierismo nell'espressione degli affetti, e nondimeno a sufficienza sentito, ed ove la situazione il comporta, caldo ed animato. Nei modi di canto del sig. Guasco, dotato di buona e omogenea voce di tenore ch'egli non guasta con isforzi di cattiva scuola, è anzi tutto gradita una tal quale spontaneità che non lascia scorgere nè la fatica nè lo studio. - A questo scopo debbe tendere principalmente ogni arte consacrata al diletto e alla comozione. Un altro pregio del sig. Guasco è l'intonazione, alla quale egli è fedele per abitudine (...)
Un altro encomio che vogliamo dare al sig. Guasco si volge alla sua azione, non punto di maniera accademica, ma giusta, ma sobria, ma naturale. Abbiamo udito taluni accusarlo di poco animato e anzi freddo porgere drammatico. (...)
Tutto quel contorcersi e scalmanarsi, tutto quel spingere di voci a mo' di singhiozzi e di gemiti, non sono che cose di artifizio, malizie studiate, finzioni per ingannare il pubblico e buscarsi degli applausi. E all'opposto quanti cantanti che a riguardarli sulla scena, avari di gesti e di movimenti, composti nella persona, non facili a contrazioni di volto, ad occhiate da spiritati, si direbbero freddi e passivi, e invece sentono moltissimo, e ne danno prova a momento opportuno, e non sciupano l'espressione e il far tragico ad ogni più insignificante punto dell'azione. O ci inganniamo o ne pare che il bravo sig. Guasco sia da porsi in questo novero. (...)"

(CRITICA MELODRAMMATICA - Teatro alla Scala - "Gazzetta Musicale di Milano" del 4 settembre 1842)

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1- I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA (l'11 febbraio 1843 partecipò alla prima assoluta de "I Lombardi alla prima crociata" di Verdi alla Scala di Milano nel ruolo di Oronte) :

Francesco Regli sul Pirata del 14 febbraio 1843 scriveva dell'Oronte di Guasco:
"aiutato a meraviglia dall'accorto Maestro, vi fa una brillante figura, ed è segno a plausi e ad acclamazioni, che possiamo con tutta franchezza chiamar d'entusiasmo".
Alla fine del 1843, ancora Regli sulla "Strenna Teatrale Europea" diceva in merito a Guasco che:
"col suo versatile ingegno, con l'amor suo per l'arte, con quella sua voce dolcissima e resa ancora più soave e magica dalla sua ottima scuola, onorò il di lui nome, onorò le scene italiane né meglio il Verdi situar lo poteva".

In Risposta alla "France Musicale", B.Bermani scriveva sulla Gazzetta Musicale di Milano del 2 aprile 1843:
"(...) è garante l'applauso d'un pubblico che in tutte le rappresentazioni dei Lombardi, ed in un mese non furono meno di venti, era composto di circa tremila spettatori. Guasco nelle sue due romanze, in un duetto, e in un terzetto ottenne un deciso successo (...)".

2- ERNANI (il 9 marzo 1844, nei panni del protagonista, partecipò alla prima assoluta dell' "Ernani" di Verdi, tenutasi al Gran Teatro La Fenice di Venezia) :

Un anonimo recensore sul "Gondoliere" apprezzò la grazia rara di Guasco, mentre Francesco Gamba scrisse che Guasco era da lodare "per un canto delicato, affettuoso, soave" ("Vaglio", 16 marzo 1844).

"(...) Noi abbiamo le orecchie ancora tanto piene della simpatica ed espressiva voce di Guasco e del suo eccellente stile di canto che non so se né Poggi né Fraschini potranno farcelo dimenticare, non è possibile dire quanto bene dicesse l'ultimo terzetto dell'Ernani (che è già un pezzo magico e che rispettando l'opinione de' gl'altri per il mio gusto compra tutto il Nabucco ed i Lombardi), con quanta espressione lo declamasse infine io ne sono entusiasta tanto del pezzo quanto del modo come Guasco lo cantava, come sono stata felice nelle ultime recite dell'Ernani temo di non esserlo al principio della nuova stagione che si aprirà tanto a S.Benedetto come alla Fenice con il Nabucco ed i Lombardi (...)".
(da una lettera del 18 marzo 1844 di Faustina Capranica, conservata nel Fondo Capranica - busta 60 - dell'Archivio Storico Capitolino a Roma)

Guasco nasceva come "tenore estatico": "la [sua] voce è più dolce che gagliarda" scriveva Tommaso Locatelli sulla "Gazzetta privilegiata di Venezia" del 30 marzo 1844.

Il "Figaro", il 4 settembre 1844, affermava:
"Quando Guasco canta a fior di labbro è un vero diletto l'ascoltarlo; ma se dalla mezza voce passa al canto di forza, addio piacere, addio illusione! Egli per altro ha inteso benissimo la parte d'Ernani, scritta per lui, e nell'adagio della cavatina e nel terzetto finale c'innamora veramente."

Il "Bazar", il 7 settembre 1844 (in merito alla prima recita alla Scala di Ernani) sosteneva che:
"Il sempre valente primo tenore Carlo Guasco, dotato di una voce superbamente omogenea, cantò ed agì la parte del protagonista con arte squisita, trattando l'azione con caratteristica verità, da renderne tutti persuasi ch'egli è sempre cantante ed artista di primissimo ordine, e che non teme rivali nel canto di grazia, di dolcezza e di affezione, come glielo provarono, meglio che le mie parole, il plauso sincero, spontaneo ed universale del nostro Publico."

Nella "Gazzetta Musicale di Milano", dell'8 settembre 1844, si scriveva che:
"Guasco colla flessibilità della soave sua voce seppe anche in quest'opera cattivarsi ogni cuore; nella sua cavatina, nella sua preghiera a Silva, nel suo duettino colla Gabussi ci fece trasalire dalla più tenera emozione."

Il 22 ottobre del 1844 la "Fama" riportava che:
"Guasco colla dolcezza della voce, colla mellifluità del canto, colla passione del suo porgere s'insinuò nell'anime e le commosse".

Il "Figaro", il 5 febbraio 1845, scriveva:
"Se la fama di Guasco non fosse stata generalmente e pienamente stabilita, sarebbe ora bastata l'esecuzone dell'Ernani per farlo acclamare come artista maraviglioso, e Verdi ben seppe giovarsi dei peregrini di lui mezzi, poiché negli otto pezzi in cui o solo o accompagnato ha parte il tenore, fece uno studio di dolcezza, di affetto, di soavità di modi da entusiasmare e rapire l'animo più schivo delle musicali bellezze. Infatti in tutti i detti brani, generale, spontaneo, vivissimo è l'applauso che festeggia il Guasco, il quale maravigliosamente sa dare alla voce quell'accento appassionato che parte dall'anima, e che noi non sapremo ritrarre a parole."

"Le ténor Guasco a enfin débuté dans 'Hernani'. Il a réussi, malgré l'inconvénient de ces réclames anticipées qui ont pour effet ordinaire d'accroitre l'exigence du public. Guasco a une bonne et belle voix de poitrine, qualité qui devient chaque jour plus rare (...)
Une autre qualité de la voix de Guasco, c'est la sonorité des notes du médium. Ce chanteur a du feu, de l'àme, un gout pur par momens (...)"
(L'Argus - 12.12.1851)

Il 14 dicembre 1851 la "Gazzetta Musicale" di Ricordi copiava una critica della "France Musicale" dicendo che:
"Il signor Guasco si mostrava per la prima volta sul teatro Italiano di Parigi, nella parte d'Ernani. Dopo Rubini, non abbiamo udito alcun tenore paragonabile a questo artista, per il quale Verdi ha scritto la parte principale d'Ernani. Quanta grazia, quanta leggiadria e quanto buon gusto nella maniera di cantare gli andanti!"

"Le ténor Guasco, pour lequel le rôle d'Ernani avait été écrit par Verdi dont il est l'ami intime, a repris son rôle: Guasco possède une forte belle voix de ténor très souple et très sympathique, il chante avec beaucoup d'àme, vocalise avec une extréme facilité et le public l'a fortement applaudi et redemandé."
(Le Daguerréotype théâtral - 17.12.1851)

L' "Italia Musicale", il 24 dicembre 1851, riportava un articolo della "Revue et Gazette Musicale":
"L'Ernani non ha interrotto il corso delle sue rappresentazioni. Guasco è decisamente un artista di primo rango, un allievo della scuola più corretta. La sua voce è di tutta dolcezza, egli la emette e la adopera con un'arte la più squisita".

3- ATTILA (il 17 marzo 1846 è tra gli interpreti della prima assoluta del verdiano "Attila", opera che debuttò alla Fenice nel ruolo di Foresto) :

"L'Attila ha avuto successo lietissimo alla prima sera, ed ha fatto fanatismo alla seconda rappresentazione. Non vi fu pezzo senza applausi e quindi chiamate senza numero. (...) Tutti i cantanti hanno cantato col massimo impegno e tutti si sono distinti." (lettera di Verdi al conte Opprandino Arrivabene del 18 marzo 1846)

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CARLO GUASCO :
"Nell'autunno 1841 cantò in Milano alla Scala nella 'Vestale' del M° Mercadante, nella 'Catterina di Cleves', nelle 'Nozze di Figaro', e nel 'Corrado d'Altamura', scritto appositamente per lui dal M° Ricci Federico. Quest'Opera, così caratteristica per la sua voce, fu uno scoglio per tutti i tenori, che non avevano forse fatto esercizii sufficienti nell'economia del fiato, per eseguire frasi musicali alquanto lunghe in una sola respirazione. Il modo e la malizia di fraseggiare con le respirazioni meno possibili ed inavvertite dal Pubblico costituivano ben a ragione per lui il sublime dell'arte del canto, a cui aspira invano quella classe, anche più elevata, di dilettanti, così proclive alla critica degli artisti di professione, non che la turba innumerevole di quei cantanti, che non sanno mai trovare alcun difetto nel loro metodo, e solo diventano umili e modesti al cospetto dei confronti e dei fatti."

[Francesco Regli - "Dizionario biografico", 1860]

Caratteristiche vocali-interpretative di Tamagno, Maurel e Pantaleoni, rilevate nelle prime rappresentazioni assolute di Otello di Verdi nel 1887


Caratteristiche vocali-interpretative di Tamagno, Maurel e Pantaleoni, rilevate nelle prime rappresentazioni assolute di Otello di Verdi nel 1887:

Rivista milanese, 12 febbraio:
Il grande avvenimento s'è compiuto: sabato scorso, 5 febbraio, ebbe luogo alla Scala la prima e tanto attesa rappresentazione dell'Otello di Verdi. (...)
Il nuovo e possente lavoro Verdiano ha trionfato - fra clamori ed entusiasmi indescrivibili: spettacolo squisito nello spettacolo stesso.
L'esecuzione fu consona all'ambiente: Tamagno, Maurel, la Pantaleoni hanno dato ai tre salienti personaggi del dramma - stupendamente trattato dal Boito - il carattere voluto dal poeta e dal compositore; e il pubblico ha fatto ovazioni a questi artisti, calorosissime - come le ha fatte del pari al maestro Faccio ed alla sua impareggiabile orchestra. (...)
Le ovazioni al maestro Verdi, poi, si sono mutate in delirio: e alla fine dell'opera, il teatro pareva dovesse sfasciarsi fra il tumulto delle grida, degli 'evviva Verdi', dei battimenti, delle acclamazioni. (...)
riporteremo in un supplemento a parte i giudizi, le relazioni, le critiche di tutta la stampa cittadina, italiana e straniera (...) Questo supplemento uscirà in settimana (...)
In pari tempo, essendosi forzatamente ritardata la seconda rappresentazione dell'opera, a cagione d'una malattia toccata al tenore Tamagno, si unirà in quel supplemento anche il resoconto della rappresentazione stessa. La quale, secondo tutte le ben fondate speranze, deve aver luogo domani sera, avendo il signor Tamagno migliorato assai della sua indisposizione, ch'era una irritazione della trachea, dovuta ad eccesso di fatica.

(Gazzetta Musicale di Milano, 13 febbraio 1887)

- LA TERZA RAPPRESENTAZIONE dell'OTELLO

IL PUNGOLO:
Otello, Jago, Desdemona sono là, vivi, davanti a noi, nella duplice e pari grandezza della creazione shakesperiana e verdiana.
Il Tamagno non è grande soltanto nello scoppio terribile delle collere selvaggie del moro, che richiedono tutta la straordinaria potenza della sua voce, ma anche nel rendere le dolcezze voluttuose dell'amore che egli sente per la sua Desdemona - dolcezze che hanno, nel duetto del primo atto, una sì affascinante espressione - ma anche nel rendere lo strazio supremo, infinito dell'ultimo atto. E ormai non è più il tenore Tamagno dalle note squillanti che si ammira alla Scala - si ammira Otello - perchè Otello c'è.
Che dire del Maurel, che non gli abbiano detto le a stento frenate approvazioni del pubblico?
Nel personaggio di Jago, in cui l'arte prevale, egli non trascura un dettaglio, non lascia passare una frase, senza scrutarne l'intimo pensiero e renderlo evidente coll'accento e coll'azione.
Gentile, appassionata, tenera, dolce Desdemona, è la Pantaleoni, che ne fa un tipo veramente poetico ed ideale di dolcezza femminile, di natura appassioanta - e, specialmente nell'ultimo atto, in cui il personaggio della infelice Desdemona spicca in tutta la sua evidenza drammatica, trova l'accento ed il gesto che rendono tutte le agitazioni di quell'anima addolorata, tutti i terrori di quella notte spaventosa.

(Gazzetta Musicale di Milano, 20 febbraio 1887)

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Rivista milanese, 26 febbraio:
Il Tamagno, con quella sua poderosa voce ruggente e carezzevole ad un tempo, con l'accento purissimo e pieno d'espressione, la chiara ed irreprensibile pronuncia, e coll'azione intelligente di un valente trageda tutto compenetrato nella propria parte, trae degli effetti stupendi, ed è ogni sera oggetto di acclamazioni ripetute.
Maurel, il diabolico Jago, minia con rara efficacia il carattere del ribaldo personaggio: attore e cantante di grande pregio, supera col suo talento eccezionale le difficoltà di una parte originalissima e che non ha riscontro in altre opere.
La signora Pantaleoni è sempre quella soave Desdemona dagli accenti appassionati, e nel quarto atto ammirabile per l'efficacia dell'espressione.

(Gazzetta Musicale di Milano - supplemento straordinario - del 27 febbraio 1887)

Rivista milanese, 5 marzo:
Della rappresentazione d'Otello, datasi domenica scorsa (...) non crediamo di meglio che riprodurre per intero i resoconti dei seguenti giornali:

Si dava l'ottava rappresentazione dell'Otello (...)
Il Tamagno, ora che è padrone della sua parte, è veramente insuperabile non solo per la potenza della sua voce, ma pel colorito giusto che dà alle diverse gradazioni della passione, che palpitano nel suo personaggio, e per l'azione efficacissima di vero attore.
E al solito sempre sommi, per intelligente e finissima interpretazione, il Maurel, per dolcezza ed espressione la Pantaleoni.
(Il Pungolo)
V'erano alcuni distinti musicisti venuti apposta per l'Otello da Berna, rimasti entusiasmati della bellezza dello spartito verdiano. V'erano alcuni impresari di teatri di Spagna; il tenore Masini. (...) Il successo dell'Otello cresce ogni sera.
(Corriere della Sera)

(Gazzetta Musicale di Milano, 6 marzo 1887)

 

Caratteristiche vocale della Patti, la Gilda "più completa ed espressiva" per Giuseppe Verdi


Caratteristiche vocali della Patti, la Gilda "più completa ed espressiva" per Giuseppe Verdi:

...Adelina Patti fu cantante di grandezza senza pari. Quando era nel fulgore degli anni e dei trionfi, un vecchio critico musicale italiano di cui s'è perso il nome, scriveva queste parole, riportate all'indomani della morte della Diva da un giornale inglese: "La sua voce è di soprano assoluto, non voluminosa ma assai penetrativa; è estesa nella parte superiore del suo diapason; è sensibilissima anche nelle più tenui sfumature a fior di labbra, e il suo limpido tintinnio ha, in qualsiasi grado di volume, come una soave dolcezza; è così unita che i naturalisti confesserebbero non esservi in essa soluzione di continuità; è morbida, pastosa, elastica, vellutata, e tanto lieve che sembra una piuma librata nello spazio. Nelle note acutissime è spontanea quanto nelle note centrali e nelle gravi. Essa non solamente è voce cittadina, come l'avrebbe chiamata il Boccaccio, ma signorile, non solo ha mirabile facilità di gorgheggio in cui sono notevoli le scale diatoniche e cromatiche, ascendenti e discendenti, il trillo, il mezzo trillo, i passi flautati, i nitidi mordenti, ma anche la sicurezza negli attacchi e il passaggio da un registro all'altro".
Trionfavano, allora, sulle scene liriche mondiali Cristina Nilsson, Paolina Lucca, Etelka Gerster, Giuditta Pasta, Maria Malibran, l'Alboni e la Ungher, definita da Rossini "petto di bronzo, voce d'argento, talento d'oro". Ma presto Adelina Patti le superò tutte, facendosi paragonare al flauto e all'usignolo [Quando Rossini la sentì la prima volta nel "Barbiere", le espresse subito tutta la propria ammirazione: "Voce di paradiso, non c'è che dire! E gorgheggi degni d'un usignuolo!"]. Verdi, dopo avere assistito ad una rappresentazione di "Rigoletto" con la Patti, disse che "nessuna Gilda era stata mai più completa ed espressiva di lei". E, in una lettera del dicembre 1877 al Conte Arrivabene, aggiunse: "E' natura d'artista così completa che forse non v'è stata mai l'uguale. (...) la Patti è più completa. Voce meravigliosa: stile di canto purissimo. Artista stupenda, con uno 'charme' e un 'naturale' che nessuno ha".

(da: Arturo Lancellotti - "Le voci d'oro" - Roma, 1942)

E su "IL TEATRO ILLUSTRATO", dell'agosto 1883, in Le nostre illustrazioni - ADELINA PATTI si scriveva di lei:
"(...) va riconosciuta nella signora Adelina Patti una cantante dotata dalla natura di una voce della miglior tempra di soprano, limpida, flessibile, pronta a superare ogni difficoltà, e, oltre queste qualità, ne è da ammirare la perfetta intonazione, la splendidezza, l'estensione ricca, senza poi dire che la Patti sa valersi nel modo più eletto di ogni elemento del così detto bel canto. (...)" E.M.

[N.B. La Patti, di Verdi, cantò ben sette opere: "La Traviata", "Il Trovatore", "Rigoletto", "Luisa Miller", "Giovanna d'Arco", "Ernani" ed "Aida"]

martedì 21 luglio 2020

L'importanza di cantare secondo la volontà verdiana - L'IDEA E' UNA, LA SUA


L'IMPORTANZA DI CANTARE NEL MODO INDICATO DA VERDI:

"...conviene inoltre, che gli artisti cantino non a loro modo, ma al mio; che le masse, che <<pur hanno a Parigi molta capacità>>, avessero altrettanto buon volere; che infine tutto dipenda da me; che una volontà sola domini tutto: la mia. Ciò parrà un po’ tirannico!... e forse è vero. Ma se l'opera è di getto, l'Idea è Una, e tutto deve concorrere a formare quest'Uno."

(Giuseppe Verdi a Du Locle, 7 dicembre 1869)

Il "bel canto" del tenore Angelo Masini nell'Aida di Verdi


IL "BEL CANTO" DI ANGELO MASINI IN "AIDA" DI VERDI:

On hearing Masini in Aida, Tamagno exclaimed: "Those wonderful tones did not seem to be coming from a human throat but from a musical vibration in the air itself." In other words, Tamagno meant 'disembodied tone' such as is produced by a first-class violinist or 'cellist. And that is 'bel canto'.

(Ascoltando Masini in Aida, Tamagno esclamò: "Quei meravigliosi suoni non sembravano provenire da una gola umana ma da una vibrazione musicale nell'aria stessa". In altre parole, Tamagno intendeva un 'suono incorporeo' come quello prodotto da un violinista o violoncellista di prima classe. E questo è 'bel canto'.)

[E. Herbert-Caesari - Tradition and Gigli, 1958]

La paradisiaca mezza-voce del tenore Angelo Masini, prediletto interprete diretto da Verdi nel 1875-76


La paradisiaca mezza-voce del tenore Angelo Masini, interprete di Radames, nell' "Aida" di Verdi :

Ho udito il Masini in queste tre ultime opere ["Ugonotti", "Forza del destino" ed "Aida"] e ne ho ricevuto una impressione incancellabile. (...) nell'Aida chi mai ha potuto dire e cantare al pari di lui la melodiosa elegia: "Morir, sì pura e bella", nella quale la voce del Masini aveva morbidezze ineffabili di suono e accenti delicatissimi di melanconica tenerezza!
Una singolarità vocale di lui era la "mezza-voce", che sulle sue labbra assumeva una espressione d'incomparabile dolcezza e della quale egli poteva servirsi a suo talento con bellissima omogeneità, compattezza e uguaglianza di suono. La paradisiaca romanza dell'Elisir d'amore "Una furtiva lagrima", cantata dal Masini, col fascino di quella sua incantevole mezza-voce, diveniva veramente una cosa da paradiso, al punto che tale romanza, udita che la si fosse una volta da lui, non era più possibile sentirla volentieri da altri.

[in: Gino Monaldi - Cantanti Celebri del secolo XIX - Roma, "Nuova Antologia", 1907]

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Delle opere di Verdi, Masini cantò: "Ernani", "La traviata", "Rigoletto", "La forza del destino", "Aida" e la "Messa da Requiem":

Il noto impresario L. Scalaberni, all’indomani del debutto del M. in Norma di V. Bellini a Finale Emilia, nell’aprile del 1868 gli offrì un contratto triennale. Nell’autunno il M. fu scritturato come primo tenore assoluto nella stagione del teatro Lirico di Cagliari, dove prese parte tra la fine del 1868 e l’inizio del 1869 alle rappresentazioni de L’ebreo (G. Apolloni), La favorita (G. Donizetti), LA TRAVIATA ed ERNANI (G. Verdi), La contessa d’Amalfi e Morosina (E. Petrella), Eleonora d’Arborea alla battaglia di Sanluri (E.G. Costa).

Il Masini, nei primi anni, si esibì soprattutto nelle piazze controllate da Scalaberni (Mantova, Venezia, Ravenna, Bologna, Cesena, Pisa, ma anche Roma, Torino, Rovereto, Firenze, Modena e Foligno) debuttando tra il 1870 e il 1872 in numerose opere (Saffo di G. Pacini; Lucrezia Borgia, Don Sebastiano e Poliuto di Donizetti; Faust di Ch. Gounod; Ruy Blas di G. Meyerbeer; Olema la schiava di C. Pedrotti; LA FORZA DEL DESTINO di Verdi). Nel 1873 fu in cartellone a Palermo, Ferrara, Lucca e al S. Carlos di Lisbona, dove debuttò in uno dei suoi ruoli più fortunati, quello del Duca di Mantova nel RIGOLETTO di Verdi.

G. Ricordi, avendo udito nel 1874 il Masini in un’audizione alla Scala, ne sostenne fortemente la candidatura presso Verdi in vista della tournée internazionale con la "Messa da Requiem". Il compositore aveva assistito in quell’anno al positivo debutto del Masini in AIDA a Firenze, ma reso diffidente da una sua indisposizione occorsa durante alcune recite de LA FORZA DEL DESTINO a Roma, accettò nel 1875 di metterlo in compagnia solamente dopo averlo invitato a ripassarne insieme la parte. La "Messa" riscosse un successo straordinario dapprima alla salle Favart di Parigi, poi all’Albert Hall di Londra, infine alla Hofoper di Vienna (seguirono Venezia e Firenze, uniche piazze italiane). Il vero lancio del M. avvenne con questa produzione, che lo consacrò, a 31 anni, come uno fra i tenori più notevoli della sua generazione. Verdi lo diresse l’anno seguente in AIDA al théâtre des Italiens, con tale consenso di pubblico che lo spettacolo registrò l’incasso più elevato mai ricavato dal teatro.

(Nell'immagine: Portraits of the Solo Singers - Signor Verdi's new Requiem at the Albert Hall - THYE GRAPHIC, May 15th 1875)

Giuseppe Verdi dirige il suo Requiem alla Royal Albert Hall nel 1875


Royal Albert Hall Concerts. VERDI'S REQUIEM (1875)
Conductor - - - - Signor VERDI.
Madame STOLZ, Madame WALDMANN, Signor MASINI and Signor MEDINI

Saturday Afternoon, May 15, at 3
and
Wednesday Evening, May 19, at 8.

Band of 150 performers, and Chorus of the Royal Albert Hall Choral Society.
Organist: Dr. Stainer.

Le prove dell'Otello con Giuseppe Verdi (1887)


LE PROVE DELL' "OTELLO" (di Ugo Pesci)

Gli interpreti principali dell'Otello avevano ciascuno ricevuto la parte fino dal principio d'autunno e non era loro mancato tutto l'agio possibile d'impararla a dovere per il giorno in cui Verdi, giunto appena a Milano, andò alla Scala ad incominciare le prove al pianoforte. L'ottimo Cairati ammaestrava i cori già da due mesi.
Quel primo giorno, presenti il Boito, il Faccio, il maestro Coronaro e Giulio Ricordi, dopo i soliti complimenti soliti a scambiarsi fra chi non s'è veduto da qualche tempo, ― non molti perchè Verdi non è per natura loquace ― il maestro si avvicina al pianoforte e prega gli artisti a volere accennare il gran pezzo d'insieme della scna VII dell'atto III. La sola emozione di trovarsi davanti a Verdi li vince tutti: il maestro non è contento: le donne sono sgomente, gli uomini si guardano in faccia interrogandosi con lo sguardo. Ma, ad una seconda prova, il pezzo va bene e un sorriso di soddisfazione ricompare sulle labbra di tutti.
La direzione del teatro, oltre alla solita sala per le prove al cembalo, ne ha fatta preparare un'altra riservata a Verdi, con un buonissimo Erard. Il maestro va là con le prime parti; siede egli stesso al pianoforte per provare i pezzi a solo e i duetti; consiglia, incoraggia, dice ogni tanto una di quelle parole che valgono per un artista più di qualunque trionfo. A Verdi preme però che si cominci subito ad unire al canto l'azione, ed egli può esser maestro di attori come di cantanti. Raccomanda la massima naturalezza e con l'occhio intento studia ogni movimento, ogni gesto, per cogliere quello che gli sembra più naturale, più vero.
La signora Pantaleoni canta soavemente la romanza del salice interrompendola con le parole che Desdemona deve rivolgere a Emilia che l'aiuta a spogliarsi degli ornamenti. Canta la strofa

"Scendean gli augelli a vol dai rami cupi
Verso quel dolce canto...."

E poi ad Emilia: — "Riponi questo anello". — il maestro osserva che, per far parere meno brusca l'interruzione, essa dovrebbe mostrare di vedersi in dito l'anello facendo il gesto col quale ha con molta grazia indicato lo scendere degli augelli dai rami.... Con un tal maestro è possibile interpretare una parte senza squisita finezza?

Viene la volta del Tamagno. Otello deve cadere alla fine dell'ultima scena. Verdi desidera una caduta tragica, salvinesca. Il Tamagno cade più volte, ma il maestro non è completamente soddisfatto. Rimanda le prove della caduta ad un altro giorno, vedendo l'artista stanco; ed intanto, amantissimo come è de' bambini, va a carezzare e trastullare la piccola figlia del celebre tenore che è andata alla Scala a prendere il babbo. Il Tamagno è obbligato a rimanere a casa per qualche giorno indisposto. Giulio Ricordi è uomo di cui in questi giorni, alla Scala, tutti hanno bisogno. Lo chiamano: si mette al suo posto lo stesso Verdi in una scena con Desdemona della quale gli sembra troppo freddo, troppo compassato l'abbraccio. Invertendo per un momento le parti, il maestro fa vedere alla signora Pantaleoni quale debba essere un amplesso fervido, appassionato.
Molti non lo crederanno, ma è veramente così; alle 5 pomeridiane, quando i cantanti, il Faccio, il Coronaro, lo stesso Giulio Ricordi sono spossati dalla fatica, Verdi con i suoi 73 anni suonati sulle spalle, scende fresco come una rosa nel cortile che dà sulla via Filodrammatici, e risale nella carrozza, con la quale è venuto a mezzogiorno, per ritornare all'albergo Milano.

La prove d'insieme dell'Otello sono cominciate il 27 gennaio e si fanno nello stesso tempo le prove di scena. E' facile immaginarsi con quanto affettuoso rispetto l'eccellente orchestra della Scala ascolti le rare osservazioni di Verdi. Per le masse corali e la comparseria l'opera non presenta grandi difficoltà sceniche. Soltanto nel primo atto occorre che le varie fasi della tempesta siano accompagnate dai movimenti delle molte persone aggruppate in scena. Cori e comparse ricompariscono soltanto alla fine di quell'atto; per pochi momenti nel secondo, e poi nella grande scena finale del terzo. Oltre agli altri suoi pregi grandissimi, l'opera nuova di Verdi avrà quello di potere esser messa in scena anche in teatri non molto grandi, senza straordinario apparato scenico.... purchè siano buoni i cantanti.
Per quante preghiere gli siano state rivolte, Verdi è rimasto fermo ed irremovibile nel suo sistema di non ammettere alle prove, neppure alla prova generale, testimoni importuni dai quali sarebbe impossibile pretendere un assoluto silenzio su quanto hanno veduto e sentito. Egli desidera che il pubblico, riceva una impressione non anticipatamente guastata dalle chiacchiere di alcuni privilegiati. Ed ha non una, ma centomila ragioni.

Per un appassionato dell'arte lo spettacolo di una prova d'insieme diretta da Verdi ha qualche cosa di veramente solenne. Nella vasta platea buia e deserta l'occhio indovina appena le lunghe file delle sedie vuote. Molti palchi sono chiusi con le tendine di seta che aumentano l'aria di rispettoso mistero di tutto l'ambiente. I professori d'orchestra sono al loro posto qualche minuto prima dell'ora fissata; parlano fra loro sottovoce; parlano, è inutile dirlo, dell'opera e del maestro. Fra le quinte non si vede e non si sente nessuno: quello della Scala non pare più lo stesso palco scenico brulicante di bambine, di ragazze, di uomini, di "tramagnini", quale l'abbiamo visto altre volte durante le prove di un ballo grande. Coristi e comparse aspettano ne' loro stanzoni il momento di essere chiamati in scena. Gli artisti principali sono nei camerini da' quali esce ogni tanto un gorgheggio, o il suono di una frase più volte ripetuta come per studiarne l'effetto. I due più assidui fra i componenti della direzione teatrale stanno chiacchierando dietro la prima quinta, vicino al loro palchetto, dove saliranno per assistere silenziosi alla prova.
Alle otto e mezza arriva il maestro. Boito, Giulio Ricordi, Faccio, l'hanno preceduto e sono andati ad aspettarlo all'ingresso dalla parte di via de' Filodrammatici. Il maestro è vestito secondo il solito, con la pelliccia, ed il fazzoletto di seta intorno al collo. Quand'è sul palco sbottona la pelliccia ed allenta un po' il fazzoletto; qualche volta lo toglie. E' già al posto la bella scena dipinta dal Ferrario che serve per l'atto terzo e rappresenta la gran sala del castello nel quale Otello risiede. I lumi della ribalta fanno scintillare la volta a mosaici su fondo dorato. Il maestro siede: Faccio è già salito al suo posto ed ha battuto due colpetti sul leggio per richiamare l'attenzione dei professori d'orchestra. E' un'abitudine: ma i professori son già tutti intenti alla musica e pronti ad incominciare.
L'orchestra attacca al principio della scena V fra Jago, Cassio ed Otello nascosto nel vano del verone. E' una scena piena di musica efficacissima, ora piana, ora concitata, nella quale scoppiano lampi d'ira e serpeggia la malvagità dei sottintesi traditori di Jago; e termina col fragore di squilli di tromba o di un colpo di cannone che annunciano "l'approdo della trireme veneziana." La trireme non si vede: ma comparisce invece fra le quinte a sinistra il cappello a cilindro e la fisonomia del primo magistrato civico milanese. Il sindaco Negri, da uomo d'ingegno, ha capito tutta la serietà dell'avvenimento artistico che sta per compiersi nella città da lui amministrata, e segue con intelligente premura tutte le fasi di quest'ultimo periodo di preparazione. L'alta importanza del suo ufficio lo preserva dalla prescrizione severa che esclude qualunque estraneo dalle prove dell'opera: egli rappresenta il comune di Milano, che è proprietario del teatro e gli paga la dote. Ma fino a quando il pezzo non è finito e l'orchestra tace, neppure il sindaco si avvicina al maestro per salutarlo.
Siamo alle due grandi scene finali dell'atto. Entrano gli ambasciatori veneti, le dame, i gentiluomini, i soldati ed i trombettieri; poi Desdemona seguita da Emilia e dai paggi. Giulio Ricordi e Boito sorvegliano che tutti vadano al loro posto, senza confusione nè strepito. Anche le masse sembrano impegnate a far bene perchè il maestro sia contento alla prima e non abbia nulla da dire. I cori della Scala hanno tradizione secolare di abilità. La comparseria si può dire scelta, e non ha nulla che fare con quella raccogliticcia dei grandi balli. Alla antiprova generale i dignitari della Serenissima portavano già la loro toga senatoria con dignità di "zentilomeni...."
Il gran finale echeggia solennemente nel teatro vuoto e lo riempie d'onde sonore: la fronte pensierosa del maestro sembra spianarsi: le sue labbra si muovono ad un sorriso di soddisfazione che equivale ad un grande elogio per i cantanti e per l'orchestra, che, appena finito il pezzo, s'alza di scatto come un professore solo, prorompe in un grido d'acclamazione ed applaude battendo gli archetti.

(da: "Verdi e l'Otello" - numero unico pubblicato da 'L'illustrazione italiana', 1887)

lunedì 20 luglio 2020

La "licenza interpretativa" concessa da Verdi al grande baritono Antonio Cotogni nella 'prima italiana' del Don Carlo


IL 'CASO ECCEZIONALE' DELLA "LICENZA INTERPRETATIVA" CONCESSA DA VERDI AL BARITONO ANTONIO COTOGNI (nel ruolo di Rodrigo, marchese di Posa), PER LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE ITALIANA DEL "DON CARLO" BOLOGNESE DEL 1867:

"(...) una mattina - così mi narrava il Cotogni - partii da Bologna per Busseto, donde proseguii subito per Sant'Agata.
Arrivai circa il mezzogiorno e, chiesto del Maestro, mi si rispose ch'esso non era ancora rientrato, ma lo sarebbe tra poco. Infatti poco dopo vidi giungere il Verdi (...) i suoi occhi mi avevano già scorto e, senza darmi il tempo di pronunciare una sola parola, mi stese la mano e mi disse:

«—Benissimo: lei è il baritono Cotogni, di cui mia ha scritto l'amico Mariani. Ho il piacere di vederlo qui e anche di sentirlo... cosa che faremo subito... Venga, venga con me.»

E senz'altro mi condusse nel suo studio (...) prese da una scansia lo spartito del 'Don Carlos' e si pose al pianoforte. Confesso - mi diceva con modesta sincerità il Cotogni - che trovarmi preso a quel modo, vicino a quel grande uomo, mi produceva un imbarazzo e una irrequietudine nervosa a cui non andai mai, per fortuna, soggetto. Ma in un momento mi resi padrone di me stesso e, come lui volle, cantai l'aria di sortita: 'Carlo ch'è solo il nostro amore' il meglio che seppi e potei. Mentre cantavo osservavo il Verdi e mi pareva ch'egli fosse soddisfatto abbastanza. Infatti egli accompagnò l'ultima nota della mia cadenza con un «Bravo!» pronunciato a voce ben alta.

«—Adesso sentiamo il duetto - mi disse; - farò io la parte del tenore.»

Nel duetto ['È lui! Desso! L'infante!'] mi trovavo anche meglio; di un solo punto non ero sicuro, perchè l'interpretazione mia non si accordava con la volontà scritta dell'autore. Io però lo cantai così come lo sentivo, senza preoccuparmi di quello che sarebbe avvenuto. Il Verdi, quando fummo a quel punto, si fermò, mi guardò e mi disse:

«—Lei lo canta come io non l'ho scritto, ma non importa, lo canti pure così che va benissimo... anzi va meglio. Quel crescendo è di ottimo effetto... E adesso mi canti la 'morte', e poi basta.»

Era proprio quello che volevo - dissi fra me - e incoraggiato dalle lusinghiere parole di poco prima, intonai l'aria: 'Sì, morrò, ma lieto in cor', cantandola come forse non l'ho cantata mai più. Ci misi dentro tutto me stesso e, un po' per l'onda del sentimento che mi saliva alla gola, un po' per l'emozione che provavo di cantare vicino al Verdi, io sentii che lagrime vere mi bagnavano il viso... ma il bello fu che, guardando il Maestro, vidi che anch'esso piangeva!
Mi strinse forte la mano, mi disse ancora due volte «Bravo» e mi congedò con queste parole:

«—Vada, vada a Bologna e dica a Mariani che io ho quasi pianto udendolo cantare la 'morte'!»

Io tornai a Bologna e ripetei al Mariani la frase, togliendoci però il 'quasi', perchè proprio non c'entrava."

Questo episodio vale più di tutta una biografia: esso basta a far capire a coloro che non l'udirono che cosa fosse il Cotogni e l'arte sua!
Fra le tante e tante opere cantate dal Cotogni - e si tratta di una cifra addirittura favolosa: egli ne annovera 157 - nessuna è rimasta attaccata, diremo così, alla sua persona, quanto il 'Don Carlos'."

(da: Gino Monaldi - Cantanti celebri del secolo XIX - Roma, Nuova Antologia, 1907)

[Nell'immagine: Antonio Cotogni assieme agli altri interpreti della prima rappresentazione italiana del "Don Carlo" di Verdi a Bologna, del 27 ottobre 1867]

L'incanto della "mezza voce" di Baucardè primo interprete di Manrico


L'incanto della "MEZZA VOCE" del tenore Carlo Baucardè, primo interprete di Manrico, nel "Trovatore" di Verdi :

« La sua voce non poteva dirsi bella e nemmeno estesa. Tuttavia egli sapeva modularla con dolcezza infinita e smorzarla gradatamente sino a ridurla un lieve sospiro. La sua MEZZA VOCE era un incanto! Rammento il Boucardé vecchio e già ritirato dalle scene nel 1864 a Milano e ricordo che una sera, al famoso Caffè Martini, allora convegno di tutti i cantanti grandi e piccini, in attività e in riposo, essendosi posto a cantarellare sotto voce lo "Spirto gentil" della 'Favorita', in un momento tutto il pubblico d'ogni specie che affollava le sale gli si fece attorno, attratto da quel dolcissimo canto e beato dell'espressione paradisiaca con cui il grande tenore accentava le flebili e amorose note. Dopo d'allora ho sentito cantare le cento volte da tenori d'ogni grado quella celebre romanza, ma non ho provato più una commozione così soave e sentito gli occhi farsi umidi di pianto come quella sera. »

(da: Gino Monaldi - "CANTANTI CELEBRI del secolo XIX" - Roma, Nuova Antologia, 1907)

L'arte del tenore Fraschini, dura lezione data agli "Abbaioni"


"L'arte di Fraschini [il tenore prediletto da Verdi negli anni tra il 1845 e oltre il '60] è la più dura lezione data agli ABBAIONI, i quali non cercano gli 'effetti' che cogli sforzi e col Do di petto (...). O giovani tenori, andate a sentir Fraschini, studiate il suo fraseggiare, il suo accento, l'appoggio del suono, la dolce espressione e l'accrescer della voce fino alla forza naturale, e voi avrete (salvo la sua abitudine di tener troppo certi La o Si alti che perdono il suono argentino) uno squisito modello del miglior cantante."
Questo è il giudizio di Panofka, espresso nel suo "Voci e cantanti" - Firenze 1871, sul tenore ascoltato-ammirato nel 1863 nella "Lucia di Lammermoor" e nella "Lucrezia Borgia"!

Il celebre Gaetano Fraschini, che debuttò nel 1837 e cantò sulle scene sino al 1873, nella sua carriera - durata 35 anni - passando dal San Carlo di Napoli alla Scala di Milano fino ad arrivare all'estero ad importanti teatri quali il Kärtnerthortheater di Vienna, l'Her Majesty's Theatre di Londra ed il Théâtre Italien di Parigi, creò diversi personaggi di nuove opere liriche scritte da Donizetti, Pacini, Mercadante, Petrella e Verdi.

RUOLI VERDIANI CREATI :

Zamoro in "Alzira" di Verdi (12 Agosto 1845, Napoli)

Corrado ne "Il corsaro" di Verdi (25 Ottobre 1848, Trieste)

Arrigo ne "La battaglia di Legnano" di Verdi (27 Gennaio 1849, Roma)

Il ruolo del titolo in "Stiffelio" di Verdi (16 Novembre 1850, Trieste)

Riccardo in "Un ballo in maschera" di Verdi (17 Febbraio 1859, Roma)

La voce "di velluto" dai suoni perfetti del tenore Angelo Masini, descritta da Verdi


Giuseppe Verdi sulla voce "angelica" del tenore Angelo Masini :

"Penso che possieda la voce più divina cha abbia mai sentito: è proprio come un velluto... trovo che questo tenore, dalla nota più acuta alla più grave, è semplicemente perfetto e ha un grande talento".

(citazione verdiana tratta da un intervista rilasciata alla giornalista Blanche Roosevelt apparsa sul "Chicago Times" nel giugno 1875)

Il segreto dei "centri" nella musica vocale verdiana (Guasco-De Negri)


IL SEGRETO DEI "CENTRI"

Fra gli allievi di Carlo Guasco vi fu anche Giovanni Battista De Negri, nato ad Alessandria, che nel 1850 a vent'anni d'età apprende i segreti del canto dal celebre tenore di Solero ed anche dal soprano Luigia Abbadia che aveva aperto una rinomata scuola di canto a Milano.
Giorgio Appolonia scrive nel suo libro "Carlo Guasco un tenore per Verdi": «Guasco ha lavorato con lui il settore centrale della voce necessario per affrontare con agio intense pagine dell'Otello di Verdi, come il duetto del primo atto con Desdemona.»
Come ricorda Celletti, nel suo libro "Voce di tenore": «nella lettera con la quale Verdi metteva a confronto i due tenori, si dice che De Negri doveva concedere tanti bis quanti ne concedeva Tamagno. Per di più Verdi si lasciava sfuggire dalla penna un apprezzamento forse mai usato per alcun altro cantante. Afferma infatti che De Negri eseguiva "divinamente" il duetto del I atto con Desdemona "Già nella notte densa". Il fatto è che, contrariamente al mito caro ai loggioni, l'Otello non è la saga degli acuti, ma un opera dalla tessitura prevalentemente centrale. Ebbene, De Negri aveva dei centri definiti "stupendi" da vari critici. Superava inoltre Tamagno come eloquenza d'accento, fraseggio sfumato, concezione drammatico-musicale. Queste qualità ebbero rilievo anche nel Tannhäuser. De Negri trovava in quest'opera anche la dolcezza di cui, secondo Wagner, non era capace Tichatscheck.»


Interessante quanto riportato nella "Gazzetta Musicale di Milano" del 23 novembre 1884 - sez. "Teatri - Alessandria (Piemonte)", nella rappresentazione dell'opera "Simon Boccanegra" di Verdi :

«Il nostro concittadino, il tenore De Negri (Gabriele Adorno), l'attrattiva della serata, ha splendidamente confermato la bella fama da cui era preceduto, ottenendo, senza iperbole, un vero trionfo.
Erano molti anni che non avevamo udito un tenore così delizioso. Dopo la breve ma bell'aria: Cielo di stelle orbato, venne salutato da lunghi applausi, che diventarono veramente entusiastici alla fine del duetto col soprano, dopo quello col basso, alla sua romanza, al gran finale primo, ed al terzetto di difficilissima tessitura.
Il De Negri, che ci è concesso finalmente di spassionatamente giudicare, oltre al possedere un bellissimo metodo di canto ed una perfetta conoscenza di scena, ha una magnifica voce di vero tenore drammatico, limpida, calda, estesa, potente e di timbro simpaticissimo: tutto questo fa di lui un artista di vaglia destinato a calcare i più grandi teatri.
Il celebre tenore Guasco, ora defunto, da noi più volte interpellato sul conto del De Negri, ci rispondeva: "la stoffa c'è, se studierà mi rimpiazzerà degnamente"; e non si è sbagliato.
Il De Negri ha dimostrato chiaramente domenica sera, che nulla ha tralasciato per riuscire un artista di prim'ordine.»

Il celebre basso Lablache dalla perfetta "messa di voce" primo interprete nei Masnadieri



L'INCOMPARABILE BASSO LABLACHE - DALLA PERFETTA "MESSA DI VOCE" - SCELTO DA VERDI PER I SUOI "MASNADIERI" :

«La voce di Lablache non oltrepassa l'estensione normale delle voci di basso dal "sol" al "mi". Se ne eccettui le due note estreme, vale a dire la più profonda e la più alta, le sue voci suonano tutte egualmente colla stessa metallica intensità, sono robuste per forza di naturale vibrazione, e non per isforzo di gola. Il suono si sprigiona dal suo petto colla stessa facilità con cui uscirebbe da una grossa canna di organo: una intuonazione perfetta, una messa di voce sempre certa e viva, un'accentuazione musicale piena di gusto, una franchezza imperturbabile nell'esecuzione, l'unione perfetta della capacità di cantante a quella di attore, ecco i meriti principali di Lablache. Nell'eseguire è sempre sì pronto, e soddisfa in tal modo l'orecchio, e la sua mimica, i suoi lazzi comici riempiono con tanto spirito gl'intervalli di silenzio, che fa spesso meraviglia come siasi udita un'aria di basso, disadorna di tutti i fiori, e di tutti i prestigii del canto col piacere medesimo con cui sentirebbesi una "cavatina" patetica, leggiera,e brillante eseguita dal tenore o dal soprano più rinomati.
Lablache non è veramente superiore che nell'opera buffa, ma questa immensa sua superiorità nel genere comico non gli toglie di essere ammirabile, ed anche sublime quando rappresenta la gran scena di Assur nella "Semiramide". L'alta e maestosa sua presenza, la bella, nobile, imponente ed espressiva fisonomia diedero al padre di Desdemona un'importanza drammatica non mai sospettata prima che Lablache accettasse questa parte secondaria; lo stesso si può dire di quella di Mosè. La parte di Maometto lo collocò tra i primi attori tragici. Ma nell'opera buffa questo attore, questo cantante unisce in sè tutti gli elementi necessari a costituire un perfetto basso comico; egli è il modello, il tipo del genere, e chi non vide Lablache non può formarsi un'idea della perfezione cui può alzarsi la commedia cantata, l'opera buffa italiana.»

Così viene descritta l'arte di Lablache nel 1838, in "ICONOGRAFIA MUSICALE, ovvero Ritratti e Biografie di varj dei più celebrati Maestri, Professori e Cantanti moderni", e ancora nove anni più tardi su "The Illustrated London News" del 5 giugno 1847 si legge : "On Saturday night, Donizetti's sprightly comic opera “L’Elisir d'Amore," was presented with the best effect possible. The veteran Lablache was in full force; his gigantic 'Pirouettes' were received with shouts of laughter."

Questo fu il tipo straordinario di cantante che Verdi nel medesimo anno, e cioè quando Lablache aveva circa 50 anni, ricercò per i suoi "Masnadieri", rappresentati per la prima volta all'Her Majesty's Theatre di Londra il 22 luglio 1847, e rimase addirittura entusiasta della sua voce e della sua scena.

Nuovamente su "The Illustrated London News" del 31 luglio 1847 si legge : "Lablache as the old Bohemian noble, is splendid, as he always is; both from his majestic appearance, his glorious voice, and his noble pathetic acting."

Lablache interpretò la parte del vecchio conte Massimiliano Moor (curiosità: nel 1836 Lablache era stato tra i primi interpreti dei "Briganti" di Mercadante, sul medesimo soggetto dei "Masnadieri" di Verdi). Per molti anni Verdi pensò a lui come ideale re Lear, progetto mai realizzato. Nel 1850 il compositore di Busseto lo rimpiangeva così: "I cantanti che sanno farsi gli esiti per loro stessi […] la Malibran, i Rubini, Lablache etc. etc. non esistono più" (lettera di Verdi a F.M. Piave, 8 maggio 1850)

Malgrado l'opinione contraria di alcuni biografi, l'opera "I masnadieri" fu assai bene accolta. Serva di prova la narrazione mandata il giorno dopo da Emanuele Muzio ad Antonio Barezzi:

Londra, 23 luglio 1847 -

"L'opera ha fatto furore. Dal preludio all'ultimo finale non furono che applausi, che evviva, che chiamate e ripetizioni. Il Maestro stesso dirigeva l'orchestra assiso sopra uno scanno più alto, e con la sua verga in mano. Appena comparve nell'orchestra fu un applauso che durò un quarto d'ora. Non avevano ancora finito di applaudire che arrivò la Regina, il Principe Alberto suo consorte, la Regina Madre e il Duca di Cambridge, zio della Regina, il Principe di Galles, figlio della Regina e tutta la famiglia reale ed una infinità di Lord e Duchi che non finiva più. (...)
Il Maestro fu festeggiato, chiamato nel palco, solo e con gli attori, gli furono gettati dei fiori, e non si udiva altro che : evviva Verdi ! "bietifol".....
L'esecuzione fu buona; l'orchestra meravigliosa: non poteva essere che così dirigendola Verdi. I cantanti fecero tutti bene, ma avevano una gran agitazione. La Lind e Gardoni non avevano mai cantato opere nuove ed era la prima volta che ciò loro succedeva. Lablache fu meraviglioso e Coletti pure. Il Maestro è rimasto assai contento (...)
I giornali, il "Times", il "Morning Post", il "Morning Cronichle", ecc., dicono assai bene e della musica ed anche del libro che piacque anch'esso."

["The opera aroused a furore. From the overture to the finale there was nothing but applause, recalls and encores. As soon as Verdi appeared in the orchestra pit, applause broke out and continued for a quarter of an hour. Before it had finished, the Queen and Prince Albert, the Queen Mother and the Duke of Cambridge, uncle of the Queen, the Prince of Wales, son of the Queen, and all the royal family and a countless number of lords and dukes arrived. The Maestro himself conducted, seated on a chair higher than the others, baton in hand. (...) At the end the Maestro was cheered and called on the stage, alone, and then with the other singers, flowers were thrown to him, and nothing was heard but 'VIVA VERDI'."]

Rendere l'interpretazione più "discorso" che "cantato" nel Macbeth, secondo la testimonianza della Barbieri-Nini


La richiesta verdiana del rendere l'interpretazione PIU' "DISCORSO" CHE "CANTATO" nel Macbeth, secondo la testimonianza della prima interprete Marianna Barbieri-Nini :

Racconta dunque la Barbieri-Nini che una singolarità del Verdi durante le prove era di non dir quasi mai una parola. Questo non significava già che il maestro fosse contento: tutt'altro. Ma finito un pezzo, egli faceva cenno al Romani (il vecchio Pietro Romani, il più grande concertatore di Opere del nostro secolo ...); e al cenno del Verdi il Romani gli si accostava, andavano in fondo al palcoscenico, e col quaderno sotto gli occhi l'autore accennava col dito i punti in cui l'esecuzione non era quella voluta da lui. (...) Si aiutava con gesti, con grandi percosse sul libro, rallentando con la mano o rafforzando i tempi, e poi, come se avesse avuto luogo fra i due una lunga e persuasiva spiegazione, il Verdi tornava addietro dicendo: "Ora hai capito: così."
E il povero Romani doveva mettere a tortura l'ingegno acutissimo per capire, anche quando non aveva capito nulla, e per fare da interprete con l'orchestra e con i cantanti.
Le prove del "Macbeth", tra pianoforte ed orchestra, furono più di cento (...) Non era troppo amato dalle "masse", perchè non uscì mai dalle sue labbra una parola d'incoraggiamento, mai un "bravo" di convinzione, neppure quando e professori d'orchestra e coristi credevano d'aver fatto il possibile per contentarlo (...) Ma i direttori dello spettacolo, Pietro Romani concertatore e Alamanno Biagi direttore d'orchestra, e gli artisti che avevano un nome giustamente celebre come la Barbieri-Nini e il Varesi, subivano a poco a poco il fascino di quella volontà ferrea, di quella indomita fantasia non mai contenta di sè, e che tornava ogni giorno a suggerire qualche nuova interpretazione, magari cozzante con quella del giorno avanti, ma più perfetta, più artisticamente efficace. (...)

E qui volentieri lascio parlare la Barbieri-Nini (...) [Testimonianza della prima interprete di Lady Macbeth, Marianna Barbieri Nini, su Verdi al tempo delle prove del Macbeth a Firenze nel febbraio-marzo del 1847] :

« Di tutto lo spartito il maestro ebbe grande cura durante la prova, e mi ricordo che, mattina e sera, nel "foyer" del teatro o sul palcoscenico (secondo che le prove erano a pianoforte o in orchestra) guardavamo con trepidazione il maestro appena compariva, cercando d'indovinare dai suoi occhi, o dal modo suo di salutare gli artisti, se ci fosse per quel giorno qualche novità. (...)
Mi ricordo che erano due, per il Verdi, i punti culminanti dell'Opera: la scena del sonnambulismo, e il duetto mio col baritono. Durerete fatica a crederlo, ma la scena del sonnambulismo mi portò via tre mesi di studio: io per tre mesi, mattina e sera, cercai di imitare quelli che parlano dormendo, che articolano parole (come mi diceva il Verdi) senza quasi muover le labbra, e lasciando immobili le altre parti del viso, compresi gli occhi. Fu una cosa da ammattire.
E il duetto col baritono che incomincia: "Fatal mia donna, un murmure", vi parrà un'esagerazione, ma fu provato più di centocinquanta volte: per ottenere, diceva il maestro, che fosse più "discorso" che "cantato". »

(in: Eugenio Checchi - "Giuseppe Verdi: Il genio e le opere" - Firenze, G. Barbèra, 1887)

Brevità e sublimità verdiane


BREVITA' E SUBLIMITA' verdiane :

« Io te lo raccomando con l'anima (...) Questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane!... Se noi non possiamo fare una gran cosa cerchiamo di fare una cosa almeno fuori del comune. Lo schizzo è netto: senza convenzione, senza stento, e breve. Ti raccomando i versi che essi pure siano brevi: quanto più saranno brevi e tanto più troverai effetto (...) non vi deve essere parola inutile: tutto deve dire qualche cosa, e bisogna adoperare un linguaggio sublime (...) Oh ti raccomando di non trascurarmi questo Macbeth, te ne prego (...) Brevità e sublimità... »

(da una lettera di Giuseppe Verdi al librettista del "Macbeth" Francesco Maria Piave del 4 settembre 1846)

« Le stesse cose con uno stile più elevato si dicono con metà parole! (...) Abbi sempre in mente di dir poche parole... poche parole... poche parole ma significanti... ti ripeto poche parole. Se io dovessi levare via tutte le parole che dicon niente e che son fatte soltanto per la rima e per il verso, bisognerebbe levarne un buon terzo: da questo capirai se lo stile è conciso come dovrebbe essere... stile conciso!... poche parole... hai capito?... »

(da una lettera di Giuseppe Verdi al librettista del "Macbeth" Francesco Maria Piave del 22 settembre 1846)

"Inventare il vero" secondo Verdi

 

Shakespeare ed "INVENTARE IL VERO" secondo Verdi :

- “ (...) chi trova che io non conoscevo Shakespeare quando scrissi il Macbeth. Oh, in questo hanno un gran torto. Può darsi che io non abbia reso bene il Macbeth, ma che io non conosco, che io non capisco e non sento Shakespeare, no per Dio, no. È un poeta di mia predilezione, che ho avuto fra le mani fin dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente. ”

(da una lettera di Giuseppe Verdi a Léon Escudier - Busseto, 28 aprile 1865)

[ (...) another says that I did not know Shakespeare when I wrote Macbeth. But in this they are quite wrong. I may not have rendered Macbeth well, but that I do not know, do not understand and feel Shakespeare, no, by heavens, no! He is one of my very special poets, and I have had him in my hands from my earliest youth, and I read and re-read him continually. ]

- “ (...) Copiare il vero può essere una buona cosa, ma "inventare il vero" è meglio, molto meglio.
Pare vi sia contraddizione in queste tre parole: "inventare il vero", ma domandatelo al Papà [Shakespeare]. Può darsi che egli, il Papà, si sia trovato con qualche Falstaff, ma difficilmente avrà trovato uno scellerato così scellerato come Jago, e mai e poi mai degli angioli come Cordelia, Imogene, Desdemona, ecc., ecc., eppure sono tanto veri!
Copiare il vero è una bella cosa, ma è fotografia, non pittura. (...) ”

(da una lettera di Giuseppe Verdi a Clarina Maffei - Sant'Agata, 20 ottobre 1876)

Ammonimenti verdiani rivolti ai cantanti


AMMONIMENTI VERDIANI :

"Fa che i cantanti cantino e non gridino; declamare non significa urlare" ("Que les artistes, les femmes comme les hommes, chantent et ne crient pas") scriveva Verdi al baritono francese Leone Giraldoni nel 1857. Ammonimento ricorrente in Verdi con una certa frequenza quello del non gridare (il suddetto figura in una lettera pubblicata dal Luzio e riferita da Gara) [--> E. Gara, "Non è vero che Verdi pretendeva voci esplosive", in "Corriere della Sera", 15-7-61].

E all'amico scultore Luccardi, in una lettera che gli indirizzava da Madrid il 17-2-1863 Verdi rileva: "E' certo che nella Forza del Destino non è necessario saper fare dei solfeggi, ma bisogna aver dell'anima e 'capir la parola' ed esprimerla" [--> I copialettere di G. Verdi, a cura di Cesari e Luzio, Milano, 1913, p. 612]

(citati in: Rachele Maragliano Mori - "Coscienza della voce nella scuola italiana di canto", Edizioni Curci - Milano, 1998)

La VOCE VERDIANA secondo VERDI

Il maestro Verdi ringrazia il pubblico scaligero dopo aver seguito Rossini nel 1892, per il Centenario rossiniano « La voce – scriveva Verd...