lunedì 8 febbraio 2021

Dell'emissione vocalica e delle strategie di studio nell'arte del canto, secondo la Stoltz, Giraldoni e Carpi (allievo di Giovanni Corsi)

Dell'emissione vocalica e delle strategie di studio nell'arte del canto, secondo la Stoltz, Leone Giraldoni e Vittorio Carpi (allievo di Giovanni Corsi) :

DELL'IMPOSTAZIONE DELLA VOCE E DELLA CONTEMPORANEA FUSIONE DEI REGISTRI:
Per riescire ad impostare correttamente i suoni senza affaticare l'organo vocale, il maestro (...) dovrebbe abolire la vocale A e far usare invece la vocale O in tutti quanti gli esercizi e vocalizzi, prima e per qualche tempo, chiusa come nella parola "ore", poi aperta come nella parola "oro", quando lo studente si sarà formata una voce eguale e ben unita nei così detti "registri". (...)
La celebre Stoltz che è contraria all'uso della vocale A nell'educazione vocale, dissemi che se le avessero impostata la voce colla vocale O, non sarebbe stata obbligata man mano a cantare di petto sino al LA secondo spazio. Questa è la ragione che privò il pubblico del piacere di ammirarla sulle scene ben più lungamente. (...)
Quando la voce sarà discretamente formata colla vocale O ed avrà acquistata la dovuta estensione, sarà utile far studiare i vocalizzi su tutte le vocali, insegnando coll'esempio a modificarle sulla base del suono che si ricava dalla vocale O, mantenendo perciò il più possibile la bocca in forma ovale. [N.B.]
Per riescire ad ottenere una perfetta eguaglianza di suoni su qualunque vocale, il maestro dovrebbe far fare un accurato uso della mente e dell'udito, e far cantare le cinque vocali ben legate fra loro sopra una nota sola, salendo per semitono, per un'estensione di un'ottava e mezza, prima lentamente e poi presto. Quando quest'esercizio è stato fatto bene ed ha dato i dovuti risultati, lo si faccia fare sulle cinque note per scala diatonica o per semitono, non salendo eccessivamente sugli acuti.
Dopo fatto questo utile esercizio, e dopo lo studio dei vocalizzi i più difficili, se ne faccia eseguire alcuni su sillabe diverse a piacimento (...)
Allorchè poi il maestro sarà persuaso che la voce dell'allievo è divenuta tutta eguale, scorrevole, e ben formata in tutta la sua estensione, potrà incominciare a farla applicare alle parole di una romanza o di un pezzo qualunque, avendo cura per un dato tempo di non fare studiare musica moderna.
[N.B.] L'eminente artista e professore Leone Giraldoni (...) in una sua seconda lettera [successiva al 26 ottobre 1896] aggiungeva:
<<Anch'io procuro che l'allievo protragga sempre innanzi le labbra in modo da emettere il suono sull'O anzichè sull'A onde dare alla voce un timbro rotondo.>>

COME SI STUDIA
Gli studenti in generale, che oggidì vogliono abbracciare la carriera del canto, per la smania della sollecitudine, non fanno che esercitarsi tutto il giorno a cantar forte, a ripetere malamente e macchinalmente le cento volte ciò che fu loro indicato dal maestro, ed a sforzarsi d'ottenere il volume e la quantità della voce, invece che la qualità, per superare quella del maestro, se ne ha, e quella di tutti i loro compagni.
Alcuni amano salire il più alto possibile, altri esercitarsi esageratamente nelle note basse, ed altri ancora sulle sole note centrali; tutti per la smania di cantare in una chiave differente dalla propria (...)
Quello che studia da basso, si sforza ad essere baritono, quello che è baritono spinge la voce per diventare tenore, il soprano leggero fa di tutto per poter divenire un soprano drammatico, e così di seguito!...
Il risultato di questo insensato modo di studiare, e di questa falsa e stolta ambizione, non può essere che uno solo: raucedini, serie malattie di gola, - se non bronchiali e polmonari - infine la rovina del proprio organo al segno di perdere del tutto la voce, e per sempre.
Queste conseguenze non sono solo dovute ai capricci degli studenti, ma a quei maestri che hanno l'abitudine di spingere gli allievi a cantare il più alto possibile (...) al pubblico che si è abituato ad applaudire preferibilmente chi più urla, chi più declama, chi ha più qualità di voci, chi termina un pezzo con una bella nota e la sostiene all'infinito - nonostante abbia cantato male e con voce tremula tutto il pezzo - e ad alcuni compositori che hanno ritenuto bene far cantare l'orchestra, e parlare, gestire, ed urlare i cantanti.
Un grazioso precetto di Rossini che si può rammentare ai giovani compositori, è questo:
<<Se non si lavora sulle corde di mezzo, si può spingere la prima donna fino alla luna, e il basso profondo nel pozzo, e far vedere così, la luna nel pozzo.>>
Lo studente deve persuadersi che l'arte del canto è più lavoro mentale che meccanico, più morale che fisico, e che è uno studio lungo e difficilissimo.
Deve in primo luogo studiare a misurare ed economizzare il respiro, vedere se è bastante, se è ben applicato all'esercizio che sta cantando, e discernere colla mente, con quiete, pazienza e costanza, se i suoni sortono nitidi, facili, gradevoli, eguali ed omogenei.
Deve curare alla rotondità di tutti i suoni indistintamente (...)
Deve attenersi specialmente ad esercizii d'agilità, e quando comincia a cantare colle parole, studiare prima di tutto e per lungo tempo - come già dissi - musica dei nostri vecchi maestri.
Gli artisti poi, tanto più se principianti, oltre attenersi a queste norme e formarsi mentalmente prima d'aprir bocca un'idea esatta di ciò che vogliono fare, e dei suoni che devono emettere, devono cercare di risparmiare il più possibile la voce, onde averne un abbondante e fresca riserva al momento di usarla in pubblico. (...)
Non si deve mai cantare a scatti, od usando eccessiva forza, perchè dannosissimo, senza giovar punto all'intensità e bellezza dei suoni.
E' di sommo vantaggio invece il cantare quasi sempre piano, e questo allo scopo di riescire con facilità - quando occorre - a dare colore e vigore ad una frase.
E' il requisito della dolcezza e purezza del suono, che deve possedere e a cui deve ambire un cantante, e non quello della potenza.
Non dimenticate che la voce, come un istrumento, ha il suo valore nella qualità del suono.
Cercate di acquistare la qualità della voce, e non la quantità, colla prima vi procurerete la seconda.
Alcune regole finali da tener presenti a livello pratico nell'EMISSIONE VOCALICA:
- di tenere la bocca in forma ovale;
- di tenere la lingua immobile;
- di condurre la voce nelle fosse nasali e in testa per correggere i suoni in gola, nasali e cavernosi;
- di prendere la dovuta respirazione senza chiudere e riaprire la bocca ad ogni cambiamento di tono;
- di evitare di respirare attraverso il naso;
- di evitare la voce tremula;
- bisogna aver cura di non mai aprir la bocca orizzontalmente (...) un'infrazione a questa regola (se non si fa attenzione) impedirà di salire facilmente agli acuti.

[da: Vittorio Carpi* (1847-1917) - "Ancora qualche apprezzamento SULL'ARTE DEL CANTO" - Premiato Stabilimento Musicale A.PIGNA, Milano 1898]
* "seguendo sopratutto l'esempio del mio venerato maestro Giovanni Corsi, che fu artista cantante eminente della vecchia scuola" come docente fin dal 1890 al Conservatorio di Chicago, quando il Carpi venne chiamato a insegnare su consiglio di Bazzini allora direttore del R.Conservatorio di Milano.
--> Giovanni Corsi (1822 - 1890) fu un rinomato baritono di metà '800, divenuto nel 1844 "primo baritono" alla Scala di Milano dove continuò a cantare sino al 1870. Fu Rigoletto nella prima rappresentazione parigina il 19 gennaio 1857 al Théâtre-Italien ed insegnò canto dal 1873 al 1876 al Conservatorio di S.Pietroburgo, in seguito a Milano.

"La Traviata" di Verdi - Parallelo tra la Violetta della Piccolomini e quella della Boccabadati

"La Traviata di Verdi al Carignano, parallelo fra Maria Piccolomini e Virginia Boccabadati" (in: CRONACA MENSILE - RASSEGNA MUSICALE, da "RIVISTA CONTEMPORANEA" - VOL. OTTAVO, anno quarto - Torino, Tipografia economica diretta da Barera, 1856)

(...) L'attenzione universale era rivolta alla "Traviata", a questo affettuoso dramma musicale del Verdi che l'anno passato, nella stessa stagione, aveva destato tanto entusiasmo nei Torinesi, interpretato sì sublimamente da Maria Piccolomini, di cui i lettori della "Rivista Contemporanea" ricorderanno gli elogi che stampammo in queste pagine.
Chi avrebbe potuto immaginare che dopo trentacinque ripetizioni che ebbe la "Traviata" nell'autunno passato, dovesse ancora tornare nello stesso teatro, attesa anche più avidamente? E fu così. Non appena i cartelli annunziarono quest'opera, fu quasi una lieta novella sparsa nell'universale, il quale accorse al richiamo affollatamente, come a rivedere una persona amata. (...)
La sera di giovedì, 16 ottobre, due ore prima che s'alzasse il sipario, il teatro era zeppo; tutti coloro che erano andati in visibilio l'anno passato erano là per giudicare la novella prova (...)
Le tre cantatrici che hanno riputazione in Italia sovra le altre, di interpretare sublimamente quest'opera di Verdi, sono:
1. - Maria Spezia, la prima che abbia avuto l'ardimento e la ventura di togliere dall'obblio questo spartito e di farlo rivivere nella stessa Venezia, dove sì mala accoglienza aveva incontrato due anni prima;
2. - dopo la Spezia la più stimata era certamente Virginia Boccabadati, la quale in parecchi teatri aveva sollevato l'uditorio ad entusiasmo sotto le spoglie di Violetta, e per ciò era scritturata l'anno passato al Teatro Italiano di Parigi, dove, colta da lungo malore, non potè farsi ammirare;
3. - la terza è, come tutti sappiamo, Maria Piccolomini. Dopo il trionfo ottenuto da lei a Torino, ella fu giudicata la più sublime fra le Violette; infatti, volendo eseguirsi quest'opera a Londra, la Piccolomini ebbe la preferenza; e tutti leggemmo le novelle delle liete accoglienze che ella ebbe nella capitale e nelle altre città d'Inghilterra, nelle quali tuttavia ella trascorre festeggiata. Dovendo anche a Parigi rappresentarsi la "Traviata", prescelta ad interpretarla fu la Piccolomini; e fra poco ella si presenterà su quelle scene.

(...) il subbietto domestico, intimo e dimesso, non si conviene ai teatri di larghe dimensioni; forse per ciò non ebbe ventura alla Fenice di Venezia la prima volta, nè al teatro di Porta Carinzia a Vienna, dove non ebbe che una rappresentazione. Al S. Carlo di Napoli la prima sera fece ridere la "Traviata", la seconda provocò il silenzio ed alla terza trionfò, e alla fine divise col "Trovatore" il regno di quella scena ragguardevole.
Torniamo a dire che pochi teatri, come il Carignano, si convengono a quest'opera: non essendo nè troppo vasto, nè troppo ristretto; avendo sempre un'orchestra composta da ottimi suonatori, se non numerosa, ed essendo frequentato da spettatori che vanno a teatro unicamente per udire la musica; il che non avviene al Regio, dove la nobilea va a conversare, a far bella mostra di sè, incuriosa vergognosamente di quanto si rappresenta. Al Carignano per giunta, se gli artisti non sono (come dicono nel gergo teatrale) di "cartello", se non si buscano le venti mila lire per stagione, hanno in compenso ambizione di riuscire, mettendo a profitto tutte le loro qualità con coscienza e con amore.

Alla fin fine dopo lungo aspettare, il primo violino dà il segnale che l'opera ha cominciamento: ad un tratto si fa silenzio; tutti stanno in orecchi ad ascoltare le prime note di quel mirabile preludio, che torna come memoria soave a far battere tutti i cuori. L'orchestra eseguì questo pezzo con una precisione, con una sicurezza, con un sentimento rarissimi: si poteva dire che tutti, fino all'ultimo de' secondi violini, erano compresi dell'importanza di quella rappresentazione e delle esigenze dell'universale. L'orchestra suonò come un "sol uomo".
Al levar del sipario Violetta è in iscena: un fremito generale trascorre nella sala stipata di gente; tutti gli sguardi sono fissi in lei, quasi cercando l'appariscente creatura che tanto gli aveva commossi ed ammirati altra volta.
Virginia Boccabadati ha una gracile e delicata persona, un viso, se non bello, piacente, due occhi piccoli ma scintillanti; non ha il fare spigliato della Piccolomini, nè il suo brio, nè la sua freschezza, ma invece un'aria di dolce stanchezza, un sorriso melanconico che le balena sulle labbra. Quando ci si presentava la Piccolomini, a nessuno poteva passare pel capo che quella Violetta fosse affetta dalla tisi e che dovesse in breve morire: era sì gaia, sì civettuola, sì lieta! Al primo vedere della Boccabadati un senso di tristezza ti coglie; è essa veramente la donna consunta da un malore segreto, la vera "Dame aux camélias" dell'autore francese. Il suo portamento, i suoi modi, la sua voce istessa manifestano il carattere di quella infelice, che le gioie mondane hanno consumato moralmente e fisicamente, nell'anima e nel corpo.
Se la Piccolomini col suo angelico sorriso, colla sua voce infantile ci ammaliava potentemente a segno di farci dimenticare la verità del dramma, la Boccabadati fino dal primo aspetto ci colpisce e ci fa meditare. Le grazie e le venustà del suo canto sono come fiori in un cimitero; ognuno prevede il fine doloroso di questa compassionevole cortigiana, la quale ci farà piangere sulle sue sventure quanto non potrebbe la più innocente giovinetta vittima di un primo amore.
La scena del convito comincia. La musica trascurata, saltellante ti dipinge a capello l'atmosfera di quella casa di giuoco e di piaceri, dove è regina Violetta: appena un sommesso pensiero dei violini che accompagna la presentazione di Alfredo, l'unico personaggio serio in mezzo a quegli scapestrati, ti fa per un istante meditare. Violetta lo fa sedere a sè vicino a tavola e s'intertiene seco leggermente, quando i commensali richiedono da lui un brindisi, che i francesi dicono "ronde de table". Alfredo ricusa, ma, pregato da Violetta, accetta.
Questo brindisi è affascinante pel suo piglio spontaneo e sincero e pel suo ritmo nuovo e piccante; pure nello stesso suo lascivo abbandono ha un non so che di recondito che assomiglia al sentimento di un affetto che sta per nascere. Il tenore Sarti cantò molto convenientemente questo pezzo; e di qui appunto comincia il favore, che divenne poi gigante, ottenuto dalla gentile Virginia Boccabadati. Ella, se cede in questo tratto alla Piccolomini per brio e per vivacità, seppe dare al suo canto siffatta seduzione e soavità che gli applausi scoppiarono clamorosi ed unanimi tali da assicurarle vittoria.
Le danze cominciano: un "valzer" forma, per così dire, il fondo del quadro, l'aria che respira in quella sala. Mentre quei suoni scherzosi aleggiano intorno e spargono la giocondità, due cuori si trovano vicini, uno affranto, incurioso, pieno di affetto l'altro. Il dialogo fra Violetta ed Alfredo corre spontaneo durante la prima parte del "valzer", il quale termina con quella divina melodia che tutti sanno: "Di quell'amor ch'è palpito - Dell'universo intero."
Questa melodia, una volta penetrata nell'anima della scettica cortigiana, non sarà più dimenticata: è il granello di semente che diventerà in breve gigante e che soffocherà quella gracile e patita esistenza di donna.
In questa scena la Boccabadati non ha potuto superare chi l'aveva precessa: più liquide fluiscono le sue note, più spontanee; ma le manca quello spirito che forma il carattere di tutto questo primo atto di Verdi. Lo stesso dicasi della cavatina che vien dopo. Nel recitativo la Boccabadati penetrò più profondamente nel senso delle parole: "Saria per me sventura un serio amore", ma nell'adagio, per mancanza di freschezza nella voce, non ottenne l'effetto che ne otteneva la Piccolomini, come pure nella "ripigliata" dell'allegro, dove quella con un solo gesto, coll'alzata d'un fazzoletto faceva strabiliare. Dove la Boccabadati è come cantatrice più pregevole dell'altra è nell'allegro, dove può far pompa dei più fini coloriti e dell'agilità più nitida e più granita; come più di tutto si nota nella stretta di questo pezzo vivo e originale.

Nel secondo atto noi troviamo Violetta che vive tranquilla e felice col suo Alfredo in campagna: ella non è più la cortigiana che si tuffa nei piaceri per soffocare i più puri sentimenti del cuore; è la donna che si vuol "riabilitare" (come dicono i francesi) agli occhi del suo amante e del mondo, se potesse.
Come rimane stupita quando le viene annunziato il padre di Alfredo, il quale giunge appunto a consigliarla ad abbandonare suo figlio per bene della propria famiglia! Quale contrasto in quell'anima, pur troppo travagliata dai rimorsi e dalla segreta malattia che la rode! Violetta tenta ogni via per sottrarsi a questa sentenza, ma alla fine cede. Tutto questo la Boccabadati comprese con un'intelligenza fina e profonda: coll'arte ella giunse a pareggiare quello che faceva la Piccolomini per istinto, per natura, per intuizione. Ma dove è necessaria la voce, quella è sempre minore, come nel punto dove esclama: "Non sapete quale affetto - Vivo, immenso m'arde in petto", e più ancora nel canto "Dite alla giovane", che la Piccolomini diceva con tale nitidezza d'accento, con tale abbondanza di affetto, con una pronunzia sì schietta che maggiore non si può. Tuttavia le gradazioni della passione di tutta questa scena rilevante sono meglio espresse dalla Boccabadati, la quale colla voce della Piccolomini in questo pezzo la soverchierebbe.
Da questo punto la Boccabadati rientra sino al fine nella sua natura passionata e triste, poichè il sorriso non dee più spuntare sulle sue labbra che come un lampo nella tempesta: per cui può abbandonarsi a se stessa e ritrarre le varie fasi della passione con quella potenza di sentimento che le cova nell'anima.
Stupendamente ella interpreta la scena in cui si stacca per sempre dall'amante suo, e parte dalle viscere del cuore quel grido disperato "Amami, Alfredo", che scuote con tanta forza l'anime nostre. Così nel finale del secondo atto, dove forse la Piccolomini era alquanto trascurata, ella trova affetti ad ogni frase, ad ogni movimento. Ognuno vede in lei la donna che non attende che la morte, unica sua speranza, poichè tutte le speranze in terra ha perdute. Udite quella sua frase che esce come un'elegia da quel basso fremito dell'orchestra che esprime sì bene l'incertezza de' giuocatori, il palpito dei due amanti che senza parlarsi si vedono, si intendono e si amano ancora.
Una scena che passava inosservata, ed a cui la Boccabadati dà un rilievo grandissimo, è quella con Alfredo, quand'ella vuol per l'ultima volta parlarle: in questo punto l'artista è somma, e la parola che le sfugge dalle labbra a malincuore, combattendo tutte le forze della sua passione, quando confessa di amare un altro, è pronunziata con tale strazio che la Boccabadati ti spaventa. Dopo ciò ella è deliberata a tutto. Alfredo la avvilisce, la offende, la schiaccia sotto le sue imprecazioni: è troppo, basterebbe una parola solamente a uccidere questa povera pianta già appassita, che ha già la morte in sè da tanto tempo.

Dove questa nuova Violetta dall'universale viene giudicata sublime e senza rivali è nel terzo atto. Senza acconsentire interamente all'opinione del pubblico, noi diremo che la Boccabadati interpreta e rappresenta questo atto in modo veramente straordinario. Concorre a renderla mirabile la sua stessa figura, la sua voce gracile, l'accento suo straziante e quella specie di infiacchimento fisico e morale che spira da tutta la sua persona. Non è più un'artista che noi veggiamo, è un assistere veracemente agli ultimi aneliti d'una donna: quella è una vera agonia.
Io non so se l'arte debba o no andare tant'oltre; è una questione fuori di luogo adesso, e che fu ventilata più volte: certamente la verità non è arte, poichè questa non è che una "bella" imitazione di quella. Cionulladimeno quando l'arte tocca questa sublimità ci commove, ci rende ammirati e ci fa applaudire freneticamente, come si vede tutte le sere al Carignano. Questo terzo atto sarà sempre il trionfo di quelle cantatrici che l'eseguiranno, poichè il bello è nelle condizioni del personaggio e nelle ispirazioni musicali.
E' mestieri peraltro confessare che la Boccabadati ne trae, sì sotto l'aspetto drammatico come musicale, tutto il partito possibile. Se nella divina romanza: "Addio, del passato bei sogni ridenti", ci fa un poco desiderare la Piccolomini per freschezza di voce, ella la supera nella passione con cui la esprime. Forse sotto il riguardo estetico era assai migliore il modo con cui la cantava la Piccolomini, poichè questa sua romanza era come un "lucido intervallo", come un'oasi in mezzo a quel deserto di dolore e di cordoglio, l'ultimo bagliore d'una lampada che sta per ispegnersi fra poco; ed ora in bocca della Boccabadati è il gemito della moribonda, cupo, interrotto, fievole e disperato.
Pareva impossibile ai più che la nuova Violetta potesse superare l'altra nel momento quando manda pel medico, esclamando che vuol vivere, perchè il suo amante è ritornato, dove la Piccolomini sollevava tanto entusiasmo; eppure la Violetta presente trovò il modo di superarla, tanto la sua azione è giusta e spaventevolmente vera.
Anche nella morte la Boccabadati trovò un effetto nuovo: ella si solleva per poco, staccandosi dalle braccia de' suoi che la circondano, fa alcuni passi nella camera, pare che la vita le rifluisca nelle vene; un sorriso le sfiora le labbra, le risplende negli occhi; si direbbe che un raggio di paradiso le rifulga nel viso. Tutti la guardano stupiti ed attoniti, come dovesse sull'ala del suo pensiero sollevarsi leggera da questa valle dove ella tanto sofferse, come una bianca nuvoletta in sul tramonto del giorno. E' quello l'ultimo sforzo della povera creatura, che dopo quell'aspirazione cade sfasciata nelle braccia dell'amante.
Allora l'universale, tergendo le lagrime e soffocando i singhiozzi, manifesta la sua ammirazione con applausi interminati e con chiamate senza fine. Da ciò si può concludere che la Piccolomini aveva più natura e questa maggior arte; che quella indovinava spesso gli effetti, e questa li studia; quella era più sublime, questa più vera.
Nel complesso questa volta la "Traviata" è anche meglio eseguita per parte degli altri attori. Delle Sedie è un baritono che canta squisitamente e con accento pieno di affetto; Sarti è pure artista pregevole, perchè coscienzioso e zelante, e valse a dar risalto al duetto finale, una delle più felici ispirazioni dell'opera. Infine tutto concorre a rendere la "Traviata" gradita all'universale doppiamente, ricordando la Piccolomini e facendoci provare nuove soavi sensazioni.
Il teatro è affollato tutte le sere smisuratamente, e pare che l'entusiasmo vada crescendo da pareggiare quello dell'anno passato. (...)

M. MARCELLO.

--> N.B. « (...) Per fare il "Re Lear", finora non avete la compagnia adattata. La Penco (che è pure eccellente artista) non potrebbe farmi Cordelia come io l'intendo. Per questa parte non conosco che tre artiste: Piccolomini, Spezia, e Virginia Boccabadati. Tutte e tre hanno voce debole ma talento grande, anima e sentimento di scena. Eccellenti tutte nella "Traviata" [1] (...) Io sentirò qui la Piccolomini, e ve ne dirò qualche cosa. (...) »

(da una lettera di Giuseppe Verdi, scritta da Parigi l'11 novembre 1856, indirizzata a Vincenzo Torelli a Napoli)

Note tronche cantate "senza voce", "espressione moltissima ma nissuna violenza d'accento", "delicatezza" nei p/pp dell'orchestra


Dedicato - ancora una volta - a chi "urla", invece di cantare liricamente bene, e a chi "copre i cantanti":

Che cosa rappresenti per Verdi quest'opera [il "Don Carlos"] e che cosa volesse ottenere da certi effetti, si capisce dalle lettere, fino a oggi inedite in una sua biografia, che indirizza al direttore d'orchestra Mazzucato quando questi sta per mettere in scena il "Don Carlos".
Ad esempio:
<<...quando i clarinetti riprendono subito dopo il motivo del Duetto, vorrei un suono pianissimo, velato, direi quasi "interno", quieto, liscio senz'accento. Egli capisce cosa intendo esprimere>>.
Insomma, Verdi vuole in questo punto come un'atmosfera senza vita e aggiunge che desidererebbe che le note tronche dei cantanti fossero
<<senza voce>>.
Ma non gli basta, eccolo subito aggiungere un'altra precisazione:
<<...la "veloce celeste", che viene poco dopo, sia ben in alto e ben lontana, onde il pubblico comprenda subito bene, che non si tratta di cose di questo mondo. Ben inteso, che tutti quelli che sono in scena, come se non sentissero la "voce", baderanno soltanto all' "auto da fè">>.
Pochi giorni dopo eccolo ritornare sull'argomento, con una nuova lettera. Verdi sa bene che "Don Carlos" è un'opera che esige un gioco sapiente, un'interpretazione attenta a tutte le sfumature. E' l'opera dei dettagli che, uniti assieme, fanno un quadro composito, sfumato.
<<Per esempio>>, spiega il Maestro, <<s'io le dicessi che il Coro di Donne in 'si mag.': atto II dev'essere suonato leggero, sfumatissimo, Ella mi potrebbe rispondere: "Sig. maestro, voi l'avete istromentato troppo". D'accordo, ma il gioco strumentale non è difficile ed una volta che l'esecutore lo abbia letto può dare al pezzo tutto il colorito che esige. Occorre che il professore d'orchestra non abbia "paura della nota" ed abbia fatto prove bastanti, per sapere quasi a memoria le note, onde applicarsi completamente nell'espressione e nel colorito>>.
La lettera contiene altre interessantissime notazioni, che sono di una modernità stupefacente.
<<Quel che ho detto del Coro, si può dire del "Dialogo a Tre", che vien dopo la Canzone del velo>>.
A questo punto Verdi desidera che i violini abbiano
<<il coraggio "de s'effacer" qualche poco, di conseguenza tutti gli altri violini li asseconderanno con un pianissimo>>.
Ecco dunque: suonare piano, cercare gli effetti, voci che non sono voci, suoni quasi lontani, soffocati, frasi tronche. Tutto sta a significare che la vivezza verdiana è qui controllata, fatta anche di sfumature, di riferimenti psicologici, di incertezze, di momenti sospesi.
<<Quando il Clarino riprende il Valzer la seconda volta, che tutti gli archi suonino "ppp"... e producano un lontano mormorio. Anche qui si potrebbe dire che gli strumenti sono troppi: no, fossero anche mille gli istromenti a corda, non copriranno mai il Clarino se si adoprerà bene l'arco>>.
E ancora:
<<Espressione moltissima ma nello stesso tempo molta calma e nissuna violenza d'accento>>.
E insiste sino a sfiorare la noia, ma come se non si fosse raccomandato abbastanza, come se fosse la prima volta che lo dice, di provare, di continuare a provare. Vuole
<<le cose delicate... che i "p." sieno veramente piani, e che i tempi sieno animati senza essere convulsi e violenti, salvo nei casi ove l'azione l'esige. La mancanza di delicatezza e la violenza, sono i peccati capitali delle nostre orchestre, perché i nostri poveri professori hanno sempre il braccio stanco, e non si prova abbastanza per eseguire bene le cose delicate e a poche note>>.

(tratto da: Giuseppe Tarozzi - IL GRAN VECCHIO - Club Italiano dei Lettori, Milano 1980)

PRO MEMORIA verdiano per "Otello" e parole lette da Verdi tramutatesi in "onde sonore"

Il primo novembre, dopo aver tirato un sospiro di sollievo invia, tutto eccitato, questo biglietto al suo editore:
<<Vi scrivo per dirvi che Otello è completamente finito!! Proprio finito!!! Finalmente!!!!!!!! [...]>> (...)
Ci sono stati dei momenti durante i quali ha realmente creduto di non farcela, di essere troppo spossato, anche svogliato, vuoto. Momenti duri, durante i quali, per la prima volta nella sua carriera di operista, non sapeva come risolvere certe situazioni. Almeno: come risolverle al di fuori degli schemi classici del melodramma. Può ammetterlo, adesso: è stato proprio a un pelo dal rinunciare. Giorni e giorni di cupezza, quando non sentiva più "Otello", era sparito da lui. Giorni di abulia, di scontento, di inedia. Ma adesso tutto è passato, tutto è finito. "Otello" è già in tipografia. Non si sente assalito dal rimpianto, non prova il senso di vuoto, come gli è sempre accaduto quando ha terminato un'opera. Si sente, al contrario, molto soddisfatto, rappacificato, quasi contento di sé.
Adesso bisogna curare l'allestimento, che sia degno della sua fatica, del suo lungo lavoro. E badare che i cori e l'orchestra vengano istruiti bene, meglio del solito. L'importanza dell'orchestra è qui fondamentale. Per fortuna la direzione è affidata a Franco Faccio, che dell'opera conosce tutto, l'ha seguita man mano che veniva scritta. Il Vecchio, più che mai pignolo, puntiglioso, manda un "Pro memoria" - così lo intitola - a Giulio Ricordi, nel quale si precisa quanto segue:

<<Sarà bene che la casa Ricordi stabilisca fin d'ora le condizioni soprattutto coll'Impresa della Scala.
1° La casa Ricordi fisserà coll'Impresa il nolo di cui io percepirò la mia quota etc. etc.
2° Io assisterò in tutte quelle prove (che giudicherò necessarie); ma non voglio impegnarmi in nissun modo verso il pubblico e per conseguenza il cartellone dirà semplicemente "OTELLO Poesia di Boito Musica di Verdi".
3° Nissuna, nissunissima persona alle prove, come al solito, e facoltà mia completa di sospendere le prove, e di impedire la rappresentazione magari dopo la prova generale [se] o la esecuzione, o la "mise en scene", o qualunque altra cosa non mi convenisse nell'andamento del Teatro.
4° Il personale appartenente all' "Otello" dipenderà direttamente da me... Direttore d'orchestra, di Cori, di scena etc. etc.
5° La prima recita non si potrà fare senza mia autorizzazione, e qualora si credesse poter passar oltre a questa condizione l'Editore Ricordi mi pagherà centomila (100.000) Lire di multa. Obbligo Corista normale nei teatri... Un palco 1° Scala a disposizione signora Verdi>>.

Stabilito tutto, precisato tutto, confermato che, come sempre, il giudice ultimo è lui, il Vecchio si sente più tranquillo. (...)
Verdi, benché continui a manifestare apprensioni e paure per la sua salute, di energia ne ha ancora da vendere. Così ce lo descrive Giuseppe Giacosa dopo che, alcuni mesi innanzi la prima rappresentazione di "Otello", è andato a trovarlo:
<<Qualche volta Verdi afferrava lo scartafaccio del dramma e ne leggeva ad alta voce dei versi. Il Boito ed io ci esprimevamo a vicenda con lo sguardo il sentimento di ammirazione onde eravamo presi. La voce, l'accento, la cadenza, gli impeti, i corrucci espressi da quella lettura erano tali, tradivano un accendimento così intenso dell'animo, "ingrandivano così smisuratamente il senso delle parole", che appariva chiaro in essi la "scaturiggine dell'idea musicale". Vedevamo si può dire coi nostri occhi germogliare il fiore della melodia e le parole recate alla loro estrema potenza fonica "tramutarsi in onde sonore", travolgenti le infinite angoscie di cui è capace l'anima umana>>.

(da: Giuseppe Tarozzi - IL GRAN VECCHIO - Club Italiano dei Lettori, Milano 1980)
[Il brano di Giuseppe Giacosa è ricavato dall'articolo, "Verdi nella sua villa di Sant'Agata", apparso nel numero sette di "Vita moderna", Milano, 1893]

Attacchi sicuri, accenti e coloriti indicati da Verdi per i coristi, da realizzare e rispettare accuratamente


ATTACCHI SICURI, ACCENTI E COLORITI INDICATI DA VERDI PER I CORISTI, DA REALIZZARE E RISPETTARE ACCURATAMENTE:
Verdi (...) trova il tempo per scrivere una dettagliata lettera a Ricordi sull'andata in scena della "Forza":
<<...Spero che le prove avran continuato bene con quelli accenti e quei colori che io ho indicato. Raccomandate al maestro dei cori di fare studiare bene, con precisione i suoi coristi e soprattutto di non lasciar passare un attacco incerto. Nelle masse la prima cosa è l'attacco. [...] Io verrò a far due prove Lunedì. Se si possono fare bene si potrà andare in orchestra Martedì mattina, se no andremo avanti sempre così facendo poco come si è fatto finora perdendo un tempo preziosissimo>>.
La nuova versione della "Forza del destino" viene rappresentata alla Scala la sera del 27 febbraio 1869. E' un sabato sera piuttosto freddo, pioviggina. Il teatro alla Scala è tutto esaurito e l'opera ottiene un successo clamoroso. Anche i protagonisti sono molto applauditi: la Stolz, il Tiberini, la Bensa, assieme al direttore d'orchestra: il maestro Turiani. (...) Le repliche dell'opera sono quattordici. Verdi è soddisfatto dell'esito, come si può capire da questa lettera inviata all'Arrivabene:
<<Sono ritornato qui ieri sera di ritorno da Milano a mezzanotte stanco morto di fatica. Ho bisogno di dormire quindici giorni di seguito per rimettermi. A quest'ora tu saprai della "Forza del destino": vi fu una buona esecuzione e un successo. La Stolz e Tiberini superbi. Gli altri bene. Le masse, Cori ed orchestra, hanno eseguito con una precisione e un fuoco incredibili. Avevano il diavolo addosso. Ho avuto notizie anche della seconda recita: ancora bene, anzi meglio della prima. I pezzi nuovi sono una "sinfonia" eseguita meravigliosamente dall'orchestra, un piccolo coro di "Ronda" e un "terzetto" col quale si chiude l'opera>>.
Anche con l'Escudier si dichiara soddisfatto:
<<Voi sapete dunque tutto quello che è successo a Milano. Stamattina ho ricevuto notizie della seconda recita, che è stata ancora meglio della prima. Sta bene. Esecuzione superba. La Stolz e Tiberini sublimi. Gli altri bene. Ah se voi foste stato presente avreste visto e sentito come devono eseguire le masse... Ah, per Dio, voi altri eseguite più esattamente, ma non arriverete mai a produrre gli effetti dei nostri... >>.

(da: Giuseppe Tarozzi - IL GRAN VECCHIO - Club Italiano dei Lettori, Milano 1980)

La PAROLA SCENICA verdiana e la creazione di AIDA

<<Carissimo Du Locle, ho ricevuto "Patrie!" che ho letto d'un fiato. Bel dramma, vasto, potente e soprattutto scenico. Peccato che la parte della donna sia di necessità odiosa. Vi è, fra le tante, una situazione che trovo particolarmente nuova; quando i congiurati scappano e seppelliscono sotto la neve la pattuglia spagnola. Bella e nuova! Grazie mille volte grazie, mio caro Du Locle, di non aver scordato di mandarmi questo bel Dramma che m'ha fatto passare un'ora deliziosa e che mi ha fatto ammirare sempre più l'ingegno di Sardou>>.
Si faccia attenzione alla frase: "Peccato che la parte della donna sia di necessità odiosa". E' la prima volta, in oltre trent'anni di teatro in musica, che Verdi fa un'affermazione del genere. Lui ha sempre cercato, nei vari personaggi che ha musicato, la forza, la verità, il gioco chiaroscurato della psicologia, l'intensità e la verità umana. Non si è mai preoccupato se una donna era buona o cattiva. E' rimasto affascinato - e in che maniera potente e che musica ne ha ricavato - da Lady Macbeth. Adesso, però, vuole un'opera in cui la donna sia protagonista positiva, sia piena di buoni sentimenti. Magari vittima e soccombente, ma tale da attirare l'ammirazione del pubblico. E la ragione è semplice. Se oggi pensa a un nuovo melodramma, pensa a una protagonista femminile. E questa protagonista è, dev'essere, la Stolz. (...)
A poco a poco la storia di "Aida" viene prendendo corpo nella sua mente. Chiede un librettista che gli scriva i versi. Passa un po' di tempo, arriva giugno ed ecco che Verdi reclama un intervento dell'editore presso Ghislanzoni perché questi gli stenda il libretto. Poi, ottenuto l'intervento e avendo dato questo esito positivo, il Maestro invita e l'uno e l'altro a Sant'Agata. Ci si mette attorno a un tavolo e si parla a fondo di questa benedetta "Aida" che dovrà essere rappresentata al Cairo, in occasione della solenne apertura del canale di Suez. Bisogna far presto, occorre lavorare bene e svelto. (...)
Il Maestro in questo momento sente che deve tralasciare tutto per dedicarsi completamente ad "Aida". Ci sono nuovi problemi da risolvere, problemi che investono una sua più completa e composita maniera di esprimersi. Come sempre, quando deve comporre, Verdi è preso da attacchi di mal di gola che, talvolta, gli fanno venire anche la febbre. Ma ci è abituato e non se ne cruccia più di tanto, anche se non riesce a sopportare la minima contrarietà per la sua salute. A suo tempo ha comunicato al Du Locle parere favorevole sul <<programma Egiziano. E' ben fatto; è splendido di "mise en scene", e vi sono due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto belle>>. Ha persino messo a posto le questioni economiche. Non scrive se prima non ha stabilito il compenso e come riceverlo e tutto il resto. Per "Aida" le sue condizioni sono queste: libretto italiano a spese dell'Autore della musica, invio sempre a suo carico di un dirette d'orchestra al Cairo, proprietà del libretto e dello spartito per il solo regno d'Egitto, <<ritenendo per me la proprietà del libretto e della musica, per tutte le altre parti del mondo. In compenso, mi si pagherà la somma di centocinquantamila franchi, pagabili a Parigi dalla Banca Rotschild, al momento in cui verrà consegnato lo spartito. (...)>>
Verdi pensa ad "Aida" e stende la parte della protagonista tenendo ben fisso in mente l'arco delle possibilità vocali della Stolz. (...) Mai come in questo caso Verdi è stato così attento e così sicuro, così preciso nelle cose che vuole. La celebre romanza, per esempio, "Se quel guerrier io fossi", la detta per lettera al librettista, quasi parola per parola. Dice, per esempio, di aver bisogno di frasi del tipo:
"Oh foss'io quel guerriero! E ritornare potessi carico di gloria e di allori e deporre ai piedi della mia bella Aida la spada vincitrice".
Sulle prime la situazione non piace al Ghislanzoni che, invece di scrivere quanto gli è stato richiesto, manda dei versi che suonano così:
"Qui sei straniera/sei prigioniera./Pur la regina sei del mio cuor".
Regina un accidente. Che cosa si è mai messo in testa il Ghislanzoni, crede di poter ignorare quello che dice Verdi? Se ne guardi bene. E lui, volente o nolente, accetta, stende i versi secondo la volontà del Maestro. In un'altra occasione, il Musicista gli scrive:
<<Di ritorno a casa ho trovato sul mio scrittoio la sua poesia. Se debbo dire francamente la mia opinione, mi pare che questa scena della consacrazione non sia riuscita dell'importanza che m'aspettavo. I personaggi non dicono sempre quello che devono dire, ed i preti non sono abbastanza preti. Parmi altresì che la "parola scenica" non vi sia, o se v'è, è sepolta sotto la rima o sotto il verso, e quindi non salta fuori netta ed evidente come dovrebbe. Io le scriverò domani quando l'avrò riletta con più quiete...>>.
Con Verdi, è chiaro, non si collabora. Con Verdi si fa quello che vuole lui e nient'altro. E' dispotico, tiranno, accentratore, pignolo, perfezionista, incontentabile, ostinato, brusco, impaziente. Ma ha sempre ragione. Possiede il senso del teatro come nessuno. Non spreca una parola, una battuta. Vuole stringatezza, sobrietà, rapidità, concisione. Come in questo caso:
<<Nel duetto vi sono ottime cose in principio ed in fine, quantunque sia troppo disteso e largo. Mi pare che il recitativo si poteva dire in minor numero di versi. Le strofe vanno bene sino "e a te in cor destò!". Ma quando in seguito l'azione si scalda, mi pare che manchi la "parola scenica">>.
Eccoci di nuovo di fronte a questa definizione. E che cosa intenda dire con queste parole, Verdi lo spiega subito a scanso di equivoci.
<<Non so s'io mi spiego dicendo "parola scenica"; ma io intendo dire la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione>>.
Dopo di che non ci sono più dubbi, né incertezze. E anche il buon Ghislanzoni, che non si ribella mai, o che lo fa in modo tenue, quasi non credendo neppure alle proprie proteste; anche il buon Ghislanzoni dicevo, gli va subito dietro: cambia, aggiusta, taglia, aggiunge, modifica, cuce, rifà, cancella e via e via in un lavoro puntiglioso, umile, tutto teso a eseguire alla lettera gli ordini che Verdi gli impartisce. Il Musicista dispone, lui realizza. Naturalmente, Verdi sa anche prevenire le possibili osservazioni, tanto è vero che in una lettera spiega:
<<So bene ch'ella mi dirà: E il verso, la rima, la strofa? Non so che dire; ma io quando l'azione lo domanda, abbandonerei subito ritmo, rima, strofa; farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l'azione esige. Pur troppo per il teatro è necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia né musica>>.
E' teso, attento, sensibile. Si rende conto che "Aida" può essere una tappa importantissima nella sua vita artistica. Ci lavora con una dedizione, una cura, una passione, una meticolosità che stupiscono persino in un professionista come lui. (...)
Continua nella serie di ordini al librettista:
<<Signor Ghislanzoni, il duetto tra Aida e Radames è bellissimo nella parte cantata, e manca, secondo me, di sviluppo e di evidenza nella parte scenica. Io avrei preferito nel principio un recitativo. Aida sarebbe stata più calma e dignitosa, ed avrebbe potuto far spiccare meglio alcune frasi buone per la scena; [...] So bene che vi è di mezzo la strofa e la rima; ma perché non attaccare il recitativo per poter dire quello che l'azione domandava?>>. E poi raccomanda di
<<non dire nessuna parola inutile>>, ammonisce che <<non è questo il momento di fermarsi a cantare, e bisogna correre subito alla sortita d'Amneris>>, che <<la monotonia bisogna evitarla cercando forme non comuni>>. (...)

A Sant'Agata è un dolcissimo, mite settembre. (...) Mentre passeggia e osserva i platani e le magnolie, le querce e i salici piangenti e gli olmi, ripete dentro di sé i versi del libretto, magari cambiandoli, aggiustandoli, cercando altre soluzioni, ma lasciando che il nucleo centrale del dramma, della storia agisca dentro di lui, si plasmi, assuma contorni sempre più precisi e netti. I cieli della bassa padana, ovviamente, non sono quelli azzurri che si stendono sopra il Nilo. Ma è a questi cieli, a queste bianche e dorate nubi settembrine che Verdi guarda, lasciando che i suoi occhi corrano liberi, quasi placati, in questa vastità. E' ben oltre l'età che si dice matura, fra non molto toccherà la boa dei sessant'anni. Ma raramente, come in questa fine estate del 1870, si è sentito così forte, così pieno di energie, così desideroso di mettersi un'altra volta alla prova. E che si tratti pure di un ultimo fuoco, come a volte teme. Non importa. Resta il fatto che ha una gran voglia di scrivere, di finire - pur con tutti i rigori - questa sua nuova opera. A questo proposito scrive un biglietto molto significativo al Ghislanzoni:
<<L'ultima frase della sua lettera mi mette i brividi addosso: "Posso dar principio al terzo atto?" E come? Non è ancora finito? Ed io l'aspettavo di ora in ora. Io ho finito il secondo atto... Intanto farò un po' di pulizia qua e là. Van bene i versi del finale, ma è impossibile far senza una strofa dei sacerdoti. Ramfis è un personaggio e deve dir proprio qualche cosa... Non abbia paura delle "antifone" o di "lamenti" etc. Quando la situazione lo domanda non bisogna aver scrupoli... Coraggio dunque... >>.
Il buon Ghislanzoni non si fa ripetere due volte l'esortazione, tanto è vero che dopo una settimana dal biglietto di Verdi, gli spedisce il terzo atto completo. il Maestro se ne compiace e gli rivolge parole d'elogio: <<Molto bene per questo terzo atto>>, gli scrive. Ma poi ecco le critiche del caso, la ricerca attenta, i suggerimenti che sono ordini e via di questo passo. Si tratta sempre di osservazioni giustissime, per esempio come questa:
<< ...dopo che Amonasro ha detto: "Sei la schiava dei Faraoni", Aida non può parlare che a frasi spezzate>>. E ancora:
<< ...quando Amonasro dice a Radames: "Il Re d'Etiopia", qui Radames deve tenere e occupare quasi solo la scena con parole strane, pazze, esaltatissime>>.
E non c'è proprio nulla da controbattere. Verdi in questi casi potrà anche riuscire poco simpatico, dispotico e tutto quello che si vuole. Ma alla fine ha sempre ragione lui. Lo guida un sicuro senso del teatro, una spontanea capacità di saper giudicare ciò che è "drammatico" e cio che non lo è, un innato senso dell'essenziale, della via più diretta per arrivare al cuore, al succo di un'atmosfera, di un conflitto di passioni, di un personaggio colto nella sua complessa verità umana. E, insieme a queste sue doti istintive, la capacità fulminea e geniale di cantare umanamente, ma in modo quasi paradigmatico, i sussulti, le ansie, i tremori, la gioia, il dolore, la vertiginosa bellezza del nostro cuore. E farlo palpito dopo palpito, anelito dopo anelito, respiro dopo respiro. Proprio come succede con Aida, ora che gli sta nascendo perfetta, di una misura totale e grande. Proprio come con Amneris, l'antagonista, ma nello stesso tempo l'altra faccia della medaglia della schiava etiope. L'altra parte di lei.
Che non abbia bisogno di schemi, di filtri intellettualistici, ma voglia solo la verità, lo spessore umano, Verdi lo dimostra (ancora prima che col risultato artistico) nelle continue raccomandazioni che fa al librettista:
<<Io per me abbandonerei forme di strofe, ritmo; ma penserei a far cantare e renderei la situazione tale qual è, foss'anche in versi di recitativo>>; <<Soltanto non bisogna dire nissuna parola inutile...>>; <<avanti con un dialogo sempre vivo e brevissimo...>>; <<Il metro a suo piacere, e spezzi pure il dialogo se crede possa dar maggior vita>>.
Questo, solo questo gli interessa e gli preme: la vita, il vero, il senso della verità delle cose e dei sentimenti. Senza indugiare, senza infiorare, senza ripetersi. Vuole il dramma così com'è la sua musica: di un'invenzione tematica e melodica incredibile, di una naturalezza senza pari, di una fantasia incapace di esaurirsi. (...)
Il lavoro procede spedito. Più o meno gli occorre un mese per finire un atto. A ottobre può comunicare al librettista di aver ultimato il terzo. Poi, naturalmente, riprende a pungolare il Ghislanzoni. Vuole sempre <<qualche cosa di più nuovo... Qualche cosa di assolutamente nuovo>>. (...) Ha ragione: "Aida" è un'opera di enorme importanza, un'opera nella quale tenta la sintesi di tutto il suo lavoro: la verità scenica, la malia e la forza del canto e l'importanza, nuova e accresciuta, della strumentazione. Dice in questo periodo:
<< ...non essere in musica esclusivamente "melodista". Nella musica vi è qualche cosa di più della melodia: vi è la musica!>>. E' questo che lui tenta di dimostrare, riuscendoci in maniera stupefacente, con "Aida". Non è impresa da poco conto, né si tratta di un lavoro che non comporti rischi e difficoltà. (...)
In novembre inizia il quarto atto, forse il più difficile dal punto di vista psicologico e teatrale. Però sa quale strada battere e come arrivare alla meta che si è prefissato. Eccolo dunque suggerire alla sua povera vittima, il rassegnato Ghislanzoni:
<<Così con un "cantabile" un po' strano di Radames, un altro a "mezz'aria" di Aida, la "nenia" dei Sacerdoti, la ""danza> delle sacerdotesse, l' "addio alla vita" degli amanti, l' "in pace" di Amneris, formerebbero un insieme variato, ben sviluppato; e s'io posso arrivar a musicar bene il tutto, avremo fatto una buona cosa, o almeno cosa che non sarà comune. Coraggio, dunque: siamo alle frutte; ella, almeno>>.
Be', alle frutte proprio proprio non ci sono ancora arrivati. Ma Verdi non si dimentica di anticipare la fine del martirio per il librettista. Il Maestro scrive musica quasi a getto continuo, naturalmente. Si lamenta, dice di stare poco bene, di avere mal di testa, di sentirsi stanco. Ma non è vero niente. E' sano e forte. Lavora e lavora, ore e ore al pianoforte, a graffiare la carta da musica con sgorbi neri.
Un altro autunno, i viali che circonda la villa sono pieni di foglie gialle che stanno marcendo lentamente (...) C'è umido in giro. E molto fango. Ma Verdi non pensa alla cattiva stagione. Lui compone. E basta. Scrive al librettista:
<<Stupenda l'invettiva di Amneris. Anche questo pezzo è fatto. Io non andrò a Genova che quando sia finita completamente l'opera. Mancano l'ultimo pezzo, da mettere in partitura, il quarto atto, e da istrumentare da capo a fondo l'opera. E' lavoro di un mese almeno. Abbia ella dunque pazienza, e disponga le sue cose in modo da poter venire a Sant'Agata senz'aver troppa fretta>>. E subito dopo:
<<Venga presto, anzi subito subito: aggiusteremo tutto. Non abbia paura dell'ultima scena, che non scotta. E' un pezzo freddo!>>.
"Aida" è terminata. E' lo stesso Verdi a darne annuncio a un amico (...)
(...) la Stolz non viene scritturata per il Cairo. Si riesce, invece, ad averla per l'esecuzione europea alla Scala. Verdi, però, non si preoccupa solo dei cantanti. Per l'esecuzione scaligera, per esempio, consiglia a Ricordi di rendere
<<l'orchestra invisibile>> e spiega: <<Questa idea non è mia, è di Wagner: è buonissima. Pare impossibile che al giorno d'oggi si tolleri di vedere, il nostro meschino "frak" e le cravattine bianche, miste per es. ad un costume Egizio, Assiro, Druidico, ecc. ecc. e di vedere inoltre la massa d'orchestra che "è parte del mondo fittizio" quasi nel mezzo della platea fra il mondo dei fischianti, o dei plaudenti. Aggiungete a tutto questo lo sconcio di vedere per aria le teste delle arpe, i manichi dei contrabbassi, ed il mulinello del Direttore d'orchestra>>.
Si preoccupa anche, assieme al librettista, di apportare gli ultimi ritocchi all'opera, gli ultimi lavori di lima. Si accorda con lui persino per la scenografia, per la resa teatrale dei vari momenti del dramma. Anche in questi ultimi particolari è scrupoloso e incontentabile. Sa che "Aida" è un'opera complessa e che esige, se non vuole rischiare che appaia molto pompieristica, una cura particolare nella messa in scena.
<<Dobbiamo curarci di tutto>>, dice il librettista <<e segnare persino il posto dove dovranno comparire le comparse e i cantanti>>. (...)
Finita "Aida", almeno come parte creativa, non sa come riempire il suo tempo. Il lavoro che sta facendo in questo momento, e che può essere paragonato a quello di un bravo artigiano, non gli basta. <<Gran brutto mestiere il nostro>>, confida, <<appena si finisce di scrivere una partitura ti verrebbe voglia di rivederla da capo a fondo>>. (...)
Una volta aveva detto:
<<Per scriver bene, occorre poter scrivere rapidamente, "quasi d'un fiato", riservandosi poi di accomodare, vestire, ripulire l'abbozzo generale; senza di che si corre il rischio di produrre un'opera a lunghi intervalli, con una musica a mosaico, priva di stile e di carattere>>.
Ebbene, anche "Aida" l'ha composta tutta d'un fiato, sotto una grande tensione psicologica, spinto da un'ispirazione che non ha mostrato attimi di cedimento e di stanchezza, che gli infondeva una forza e una vitalità straordinarie. Ora deve "accomodare, vestire". Forse il lavoro è meno facile di un tempo. o forse adesso mette una cura particolare in questa sua ultima partitura.

(da: Giuseppe Tarozzi - IL GRAN VECCHIO - Club Italiano dei Lettori, Milano 1980)

L'interpretazione vocale e stilistica del Duca di Mantova secondo Lauri-Volpi

In che consiste l’interpretazione vocale e stilistica del “Rigoletto”? La parte del “Duca di Mantova”, nonostante la sua apparente spontaneità e disinvoltura, è tra le più spinose e pericolose. Esige appunto la difficilissima facilità della respirazione, dell’emissione, della dizione in una tessitura impervia, per rendere quel personaggio capriccioso e sfacciato, ma pure nobilissimo nel portamento e nel gesto. Il canto dovrà seguire una linea pura ed elegante; la voce, duttile e lucente, non potrà rinunciare a una consistenza virile, altrimenti cadrebbe nel mellifluo e nel querulo, che non si addice all’impeto dello scapigliato superuomo della Rinascenza. In definitiva, nel complesso personaggio verdiano pugnano elementi contraddittori che vanno superati in una meditata armonia di pensiero e di sentimento estetico. Fin dalle primissime recite, mi resi conto di cotali esigenze e, a poco a poco, pervenni a conciliarle, a fonderle in una interpretazione che parve appropriata. Così l’accettò il pubblico. E dal consenso trassi l’iniziale fortuna che agevolò l’ascesa alle alte remunerazioni.

(da: G.Lauri-Volpi - "Incontri e scontri", 1971) 


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P.S. primi e gloriosi interpreti ottocenteschi del Duca di Mantova:

RAFFAELE MIRATE
Fu uno fra i più celebrati tenori della sua epoca. Di lui avremo detto tutto avvertendo che il suo metodo sapiente e la sua voce sicura, flessibile, soave e tuttavia potente, gli permettevano di cantare egualmente e senza il minimo sforzo "Cenerentola" quanto "Rigoletto". E' noto ch'egli fu il primo interprete di quest'opera a Venezia. Il Verdi per compiacere al desiderio di lui, non pago — ed a ragione — delle sue romanze all'atto secondo —, scrisse, all'ultimo momento, la popolare canzone "La donna è mobile", nella quale il Mirate destò fanatismo. — Il periodico teatrale di quel tempo, "Il Vulcano", così scriveva:
"Quando il Mirate si è presentato alla ribalta e ha cominciato a cantare con quella sua voce, dal timbro vivo e brillante, la canzone 'La donna è mobile', tutto il pubblico ha capito subito che quella era la misteriosa sorpresa che il Verdi ci aveva preparato. E la sorpresa è riuscita graditissima, tanto che si è voluto riudire la canzone tre volte, e se il Mirate lo avesse consentito le repliche avrebbero raggiunto la dozzina!..."

MARIO DE CANDIA
Alla presente generazione, abituata al grido passionale, agli scatti convulsi degli attuali cantanti, è difficile dire con precisione quale fosse e come si esplicasse sulla scena l'arte di Mario: arte che consisteva specialmente nel dare alla parola cantata la sua perfetta espressione senza punto alterare la limpidezza del disegno melodico. Fra le molte opere del Verdi da lui cantate, quella dove non ebbe rivali fu il "Rigoletto". [*] Ogni nuova interpretazione, del resto, segnò per lui un nuovo successo che gli valse proposte e contratti cospicui per tutti i principali teatri d'Europa e d'America. (...)
La carriera del Mario sulla scena fu lunga e gloriosa.
[* Così, per esempio, nel duetto del "Rigoletto", laddove il tenore canta:
"E' sol degli uomini la vita amore,
Sia voce un palpito del nostro cuore,
E' fama, gloria, potenza, e trono..."
il Mario traeva degli effetti vocali nuovi e singolari, colorendo la parola con una varietà ed efficacia di tinte di cui sarebbe impossibile tentare l'imitazione (...)]

(da: Gino Monaldi - "Saggio d'Iconografia Verdiana, con 182 illustrazioni" - Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, 1913)

Cantarono il ruolo del Duca, tra fine Ottocento-inizio Novecento e per tutto il secolo scorso tenori di calibro diverso:

Fernando De Lucia, Enrico Caruso, Giuseppe Taccani, Dino Borgioli, Giacomo Lauri-Volpi, Beniamino Gigli, Ferruccio Tagliavini, Renato Cioni, Gianni Raimondi, Carlo Bergonzi, Luciano Pavarotti, Franco Bonisolli, Vincenzo La Scola... per non parlare di Di Stefano e Del Monaco. Ma l'interpretazione offerta da Lauri-Volpi non è stata oggettivamente raggiunta da nessun altro. Eccone le ragioni!

IL SUPERBO DUCA DI MANTOVA DI LAURI-VOLPI :

Se Tito Schipa - "principe dello stile, maestro infallibile e sempre attuale di aristocratico gusto interpretativo" - foggiò un Duca di Mantova di irresistibile eleganza salottiera, perfettamente rispondente a una moderna concezione del 'tenore di grazia' (e al di là delle Alpi gli diede la replica uno squisito Richard Tauber); e se Beniamino Gigli, a sua volta, per circa tre lustri offrì al "Rigoletto" il prezioso contributo di una fluente e melodiosa cantabilità - non c'è dubbio però che, Caruso a parte (e per qualcuno anche Caruso compreso), se vogliamo individuare il Duca del secolo, costui non può essere che Giacomo Lauri-Volpi, "il solo artista, per voce, qualità, volume, estensione, carattere, temperamento", che seppe "darci un ritratto ideale di questo cinico eroe negativo".

Del resto, che Lauri-Volpi fosse un perfetto Duca di Mantova, se ne accorse l'arcigna critica milanese fin dal dicembre 1920 allorché il ventottenne tenore presentò al Teatro Dal Verme questo personaggio che, dopo il positivo esordio di Viterbo (sett. '19), nel volgere di poco più di un anno aveva vittoriosamente interpretato al Verdi di Firenze (dic. '19 e febbr. '20), al Municipal di Rio de Janeiro e al Coliseo di Buenos Aires (estate 1920), al Politeama Rossetti di Trieste (sett. '20) e al Politeama Genovese (ott. '20). "Un Duca di Mantova quale da un pezzo non ne avevamo sentito", scriveva infatti il Ciampelli all'indomani della trionfale 'prima' milanese; e aggiungeva: "Bisogna dir subito che ci troviamo dinanzi ad un tenore di mezzi eccezionali: la sua voce è limpida, fresca, flessibilissima, ed accanto al timbro robusto che può e sa assumere nelle note medie possiede un tesoro di mezze voci nelle quali sfuma deliziosamente il suo canto. Ed è anche intelligentissimo: ce ne dà la prova il senso d'arte col quale egli domina le sue emissioni vocali, il buon gusto col quale compone il personaggio" ("La Sera", 24 dicembre 1920).

Logico il desiderio dei raffronti, sempre ardui, con un passato allora relativamente prossimo: il Ciampelli scomodava addirittura Masini e Marconi, e nel ricordo di questi due grandi predecessori non esitava a profetizzare a Lauri-Volpi "un grande avvenire".
Impegnativa anche se in fondo facile profezia, che vide il suo avverarsi già nel gennaio 1922 allorchè, a soli sedici mesi dall'esordio, Lauri-Volpi giunse a calcare vittoriosamente le scene scaligere nella prima stagione del famoso settennio toscaniniano mettendo in luce, ancora una volta quale Duca di Mantova, la sua voce "bella, limpida, dolcissima", e confermandosi "tenore che ha mezzi eccezionali, e che una seria disciplina, quale si è imposta, renderanno sicuramente un artista perfetto" ("La Sera", 16 gennaio 1922).

E le proporzioni del successo scaligero (poi ripetuto nel 1934 e 1943) si sarebbero ancora ampliate nei decenni seguenti, che videro l'irresistibile Duca di Lauri-Volpi passare di trionfo in trionfo nei principali teatri del mondo, dal Metropolitan al Colón, dal Covent Garden all'Opéra, dal Real alla Städtische Oper di Berlino, dal Liceo all'Opéra di Montecarlo, dall'Opera di San Francisco al San Carlo, dall'Arena di Verona all'Opera di Roma, dove, nel maggio 1950, a trent'anni dall'esordio di Viterbo, cantò per l'ultima volta "Rigoletto", "suscitando [. . .] l'entusiasmo nel pubblico per la generosità del suo canto e per la precisa accentuazione conferita al personaggio".

Così Renzo Rossellini ne "Il Messaggero" del 20 maggio. - A Roma, del resto, il Duca di Mantova di Lauri-Volpi ottenne sempre calorosissime accoglienze fin da quando, nel marzo 1934, lo cantò per la prima volta al Teatro Reale dell'Opera. Scrisse per l'occasione un critico anglosassone, James Robertson: "Of the singers [gli altri principali erano Toti Dal Monte e Benvenuto Franci: G.G.], the first to be mentioned is Lauri-Volpi, assuredly one of the most fulgent of Italy's glorious line of divos - a true descendent of Mario, of Rubini, not since their time has there been a voice of such miraculous flexibility. The sheer beauty of his mezza-voce, the thrill of his high notes - the most perfect in living memory - secure for him a place at the head of present-day attractions. Nor is he only a virtuoso as one might call Gigli. He is a consummate artist. Allied to his excellent stage bearing, his lyric art presented to us a Duke of Mantua in whom we had no option but to believe utterly. What girl, we asked, could have resisted the positively unhearthly beauty of his tones as he murmured in her ear 'E' il sol dell'anima'? Here is a piece of singing that will linger in my mind as long as I live [. . .] Lauri-Volpi's "Questa o quella" was nothing to make a song about, but his singing in the second and last acts was a wonderful privilege to hear (cfr. "The Record Collector", vol XI, n. 11-12, nov./dic. 1957, p. 250).
A sua volta Mario Rinaldi così riferiva di un altro famoso "Rigoletto" romano del maggio 1946 (famoso anche per gli accesi contrasti sorti fra il loggione e il direttore d'orchestra americano, certo Lawrence, per il rifiuto di costui a concedere il 'bis' della "donna è mobile" una volta tanto accordato dall'estroso tenore): "Giacomo Lauri-Volpi ha dato magnifico rilievo al personaggio del Duca; nessuno, come lui, sa forse riprodurre la spavalderia di questo poco simpatico libertino, senza contare che con i suoi eccezionali mezzi vocali il Lauri-Volpi si è guadagnato subito il pieno favore degli ascoltatori [. . .] Voce generosa, facile all'acuto ed alla mezzavoce, quella di Lauri-Volpi. Con mezzi simili non si può non aver dalla propria parte il pubblico" (cfr. "Il Messaggero", 28 maggio 1946).

Un personaggio solo apparentemente facile ma in realtà assai impegnativo, la cui pesante eredità, al pari di quella, anche più onerosa, di Manrico, attende tuttora chi possa raccoglierla, farla interamente sua, e portarla innanzi.
Un compito, se non impossibile, certo assai arduo, al quale, per la verità, non pochi tenori si sono accinti negli ultimi trent'anni, arrivando a conseguire risultati vocalmente e artisticamente anche assai pregevoli, talvolta di indubbio rilievo, senza però che i loro Duchi possano reggere fino in fondo il confronto con quello, davvero "superbo", scolpito da Lauri-Volpi. La definizione è di Toti Dal Monte (cfr. "Una voce nel mondo", Milano, Longanesi, 1962, p. 255), che ovviamente se ne intendeva per essergli stata collega in molte edizioni di "Rigoletto".

(da: IL CAMMINO DELL'OPERA di Giorgio Gualerzi, in: VERDI - Bollettino dell'Istituto di Studi Verdiani, Parma - Vol. III - Numero 9 - 31.I.1982) 

La VOCE VERDIANA secondo VERDI

Il maestro Verdi ringrazia il pubblico scaligero dopo aver seguito Rossini nel 1892, per il Centenario rossiniano « La voce – scriveva Verd...