lunedì 8 febbraio 2021

"La Traviata" di Verdi - Parallelo tra la Violetta della Piccolomini e quella della Boccabadati

"La Traviata di Verdi al Carignano, parallelo fra Maria Piccolomini e Virginia Boccabadati" (in: CRONACA MENSILE - RASSEGNA MUSICALE, da "RIVISTA CONTEMPORANEA" - VOL. OTTAVO, anno quarto - Torino, Tipografia economica diretta da Barera, 1856)

(...) L'attenzione universale era rivolta alla "Traviata", a questo affettuoso dramma musicale del Verdi che l'anno passato, nella stessa stagione, aveva destato tanto entusiasmo nei Torinesi, interpretato sì sublimamente da Maria Piccolomini, di cui i lettori della "Rivista Contemporanea" ricorderanno gli elogi che stampammo in queste pagine.
Chi avrebbe potuto immaginare che dopo trentacinque ripetizioni che ebbe la "Traviata" nell'autunno passato, dovesse ancora tornare nello stesso teatro, attesa anche più avidamente? E fu così. Non appena i cartelli annunziarono quest'opera, fu quasi una lieta novella sparsa nell'universale, il quale accorse al richiamo affollatamente, come a rivedere una persona amata. (...)
La sera di giovedì, 16 ottobre, due ore prima che s'alzasse il sipario, il teatro era zeppo; tutti coloro che erano andati in visibilio l'anno passato erano là per giudicare la novella prova (...)
Le tre cantatrici che hanno riputazione in Italia sovra le altre, di interpretare sublimamente quest'opera di Verdi, sono:
1. - Maria Spezia, la prima che abbia avuto l'ardimento e la ventura di togliere dall'obblio questo spartito e di farlo rivivere nella stessa Venezia, dove sì mala accoglienza aveva incontrato due anni prima;
2. - dopo la Spezia la più stimata era certamente Virginia Boccabadati, la quale in parecchi teatri aveva sollevato l'uditorio ad entusiasmo sotto le spoglie di Violetta, e per ciò era scritturata l'anno passato al Teatro Italiano di Parigi, dove, colta da lungo malore, non potè farsi ammirare;
3. - la terza è, come tutti sappiamo, Maria Piccolomini. Dopo il trionfo ottenuto da lei a Torino, ella fu giudicata la più sublime fra le Violette; infatti, volendo eseguirsi quest'opera a Londra, la Piccolomini ebbe la preferenza; e tutti leggemmo le novelle delle liete accoglienze che ella ebbe nella capitale e nelle altre città d'Inghilterra, nelle quali tuttavia ella trascorre festeggiata. Dovendo anche a Parigi rappresentarsi la "Traviata", prescelta ad interpretarla fu la Piccolomini; e fra poco ella si presenterà su quelle scene.

(...) il subbietto domestico, intimo e dimesso, non si conviene ai teatri di larghe dimensioni; forse per ciò non ebbe ventura alla Fenice di Venezia la prima volta, nè al teatro di Porta Carinzia a Vienna, dove non ebbe che una rappresentazione. Al S. Carlo di Napoli la prima sera fece ridere la "Traviata", la seconda provocò il silenzio ed alla terza trionfò, e alla fine divise col "Trovatore" il regno di quella scena ragguardevole.
Torniamo a dire che pochi teatri, come il Carignano, si convengono a quest'opera: non essendo nè troppo vasto, nè troppo ristretto; avendo sempre un'orchestra composta da ottimi suonatori, se non numerosa, ed essendo frequentato da spettatori che vanno a teatro unicamente per udire la musica; il che non avviene al Regio, dove la nobilea va a conversare, a far bella mostra di sè, incuriosa vergognosamente di quanto si rappresenta. Al Carignano per giunta, se gli artisti non sono (come dicono nel gergo teatrale) di "cartello", se non si buscano le venti mila lire per stagione, hanno in compenso ambizione di riuscire, mettendo a profitto tutte le loro qualità con coscienza e con amore.

Alla fin fine dopo lungo aspettare, il primo violino dà il segnale che l'opera ha cominciamento: ad un tratto si fa silenzio; tutti stanno in orecchi ad ascoltare le prime note di quel mirabile preludio, che torna come memoria soave a far battere tutti i cuori. L'orchestra eseguì questo pezzo con una precisione, con una sicurezza, con un sentimento rarissimi: si poteva dire che tutti, fino all'ultimo de' secondi violini, erano compresi dell'importanza di quella rappresentazione e delle esigenze dell'universale. L'orchestra suonò come un "sol uomo".
Al levar del sipario Violetta è in iscena: un fremito generale trascorre nella sala stipata di gente; tutti gli sguardi sono fissi in lei, quasi cercando l'appariscente creatura che tanto gli aveva commossi ed ammirati altra volta.
Virginia Boccabadati ha una gracile e delicata persona, un viso, se non bello, piacente, due occhi piccoli ma scintillanti; non ha il fare spigliato della Piccolomini, nè il suo brio, nè la sua freschezza, ma invece un'aria di dolce stanchezza, un sorriso melanconico che le balena sulle labbra. Quando ci si presentava la Piccolomini, a nessuno poteva passare pel capo che quella Violetta fosse affetta dalla tisi e che dovesse in breve morire: era sì gaia, sì civettuola, sì lieta! Al primo vedere della Boccabadati un senso di tristezza ti coglie; è essa veramente la donna consunta da un malore segreto, la vera "Dame aux camélias" dell'autore francese. Il suo portamento, i suoi modi, la sua voce istessa manifestano il carattere di quella infelice, che le gioie mondane hanno consumato moralmente e fisicamente, nell'anima e nel corpo.
Se la Piccolomini col suo angelico sorriso, colla sua voce infantile ci ammaliava potentemente a segno di farci dimenticare la verità del dramma, la Boccabadati fino dal primo aspetto ci colpisce e ci fa meditare. Le grazie e le venustà del suo canto sono come fiori in un cimitero; ognuno prevede il fine doloroso di questa compassionevole cortigiana, la quale ci farà piangere sulle sue sventure quanto non potrebbe la più innocente giovinetta vittima di un primo amore.
La scena del convito comincia. La musica trascurata, saltellante ti dipinge a capello l'atmosfera di quella casa di giuoco e di piaceri, dove è regina Violetta: appena un sommesso pensiero dei violini che accompagna la presentazione di Alfredo, l'unico personaggio serio in mezzo a quegli scapestrati, ti fa per un istante meditare. Violetta lo fa sedere a sè vicino a tavola e s'intertiene seco leggermente, quando i commensali richiedono da lui un brindisi, che i francesi dicono "ronde de table". Alfredo ricusa, ma, pregato da Violetta, accetta.
Questo brindisi è affascinante pel suo piglio spontaneo e sincero e pel suo ritmo nuovo e piccante; pure nello stesso suo lascivo abbandono ha un non so che di recondito che assomiglia al sentimento di un affetto che sta per nascere. Il tenore Sarti cantò molto convenientemente questo pezzo; e di qui appunto comincia il favore, che divenne poi gigante, ottenuto dalla gentile Virginia Boccabadati. Ella, se cede in questo tratto alla Piccolomini per brio e per vivacità, seppe dare al suo canto siffatta seduzione e soavità che gli applausi scoppiarono clamorosi ed unanimi tali da assicurarle vittoria.
Le danze cominciano: un "valzer" forma, per così dire, il fondo del quadro, l'aria che respira in quella sala. Mentre quei suoni scherzosi aleggiano intorno e spargono la giocondità, due cuori si trovano vicini, uno affranto, incurioso, pieno di affetto l'altro. Il dialogo fra Violetta ed Alfredo corre spontaneo durante la prima parte del "valzer", il quale termina con quella divina melodia che tutti sanno: "Di quell'amor ch'è palpito - Dell'universo intero."
Questa melodia, una volta penetrata nell'anima della scettica cortigiana, non sarà più dimenticata: è il granello di semente che diventerà in breve gigante e che soffocherà quella gracile e patita esistenza di donna.
In questa scena la Boccabadati non ha potuto superare chi l'aveva precessa: più liquide fluiscono le sue note, più spontanee; ma le manca quello spirito che forma il carattere di tutto questo primo atto di Verdi. Lo stesso dicasi della cavatina che vien dopo. Nel recitativo la Boccabadati penetrò più profondamente nel senso delle parole: "Saria per me sventura un serio amore", ma nell'adagio, per mancanza di freschezza nella voce, non ottenne l'effetto che ne otteneva la Piccolomini, come pure nella "ripigliata" dell'allegro, dove quella con un solo gesto, coll'alzata d'un fazzoletto faceva strabiliare. Dove la Boccabadati è come cantatrice più pregevole dell'altra è nell'allegro, dove può far pompa dei più fini coloriti e dell'agilità più nitida e più granita; come più di tutto si nota nella stretta di questo pezzo vivo e originale.

Nel secondo atto noi troviamo Violetta che vive tranquilla e felice col suo Alfredo in campagna: ella non è più la cortigiana che si tuffa nei piaceri per soffocare i più puri sentimenti del cuore; è la donna che si vuol "riabilitare" (come dicono i francesi) agli occhi del suo amante e del mondo, se potesse.
Come rimane stupita quando le viene annunziato il padre di Alfredo, il quale giunge appunto a consigliarla ad abbandonare suo figlio per bene della propria famiglia! Quale contrasto in quell'anima, pur troppo travagliata dai rimorsi e dalla segreta malattia che la rode! Violetta tenta ogni via per sottrarsi a questa sentenza, ma alla fine cede. Tutto questo la Boccabadati comprese con un'intelligenza fina e profonda: coll'arte ella giunse a pareggiare quello che faceva la Piccolomini per istinto, per natura, per intuizione. Ma dove è necessaria la voce, quella è sempre minore, come nel punto dove esclama: "Non sapete quale affetto - Vivo, immenso m'arde in petto", e più ancora nel canto "Dite alla giovane", che la Piccolomini diceva con tale nitidezza d'accento, con tale abbondanza di affetto, con una pronunzia sì schietta che maggiore non si può. Tuttavia le gradazioni della passione di tutta questa scena rilevante sono meglio espresse dalla Boccabadati, la quale colla voce della Piccolomini in questo pezzo la soverchierebbe.
Da questo punto la Boccabadati rientra sino al fine nella sua natura passionata e triste, poichè il sorriso non dee più spuntare sulle sue labbra che come un lampo nella tempesta: per cui può abbandonarsi a se stessa e ritrarre le varie fasi della passione con quella potenza di sentimento che le cova nell'anima.
Stupendamente ella interpreta la scena in cui si stacca per sempre dall'amante suo, e parte dalle viscere del cuore quel grido disperato "Amami, Alfredo", che scuote con tanta forza l'anime nostre. Così nel finale del secondo atto, dove forse la Piccolomini era alquanto trascurata, ella trova affetti ad ogni frase, ad ogni movimento. Ognuno vede in lei la donna che non attende che la morte, unica sua speranza, poichè tutte le speranze in terra ha perdute. Udite quella sua frase che esce come un'elegia da quel basso fremito dell'orchestra che esprime sì bene l'incertezza de' giuocatori, il palpito dei due amanti che senza parlarsi si vedono, si intendono e si amano ancora.
Una scena che passava inosservata, ed a cui la Boccabadati dà un rilievo grandissimo, è quella con Alfredo, quand'ella vuol per l'ultima volta parlarle: in questo punto l'artista è somma, e la parola che le sfugge dalle labbra a malincuore, combattendo tutte le forze della sua passione, quando confessa di amare un altro, è pronunziata con tale strazio che la Boccabadati ti spaventa. Dopo ciò ella è deliberata a tutto. Alfredo la avvilisce, la offende, la schiaccia sotto le sue imprecazioni: è troppo, basterebbe una parola solamente a uccidere questa povera pianta già appassita, che ha già la morte in sè da tanto tempo.

Dove questa nuova Violetta dall'universale viene giudicata sublime e senza rivali è nel terzo atto. Senza acconsentire interamente all'opinione del pubblico, noi diremo che la Boccabadati interpreta e rappresenta questo atto in modo veramente straordinario. Concorre a renderla mirabile la sua stessa figura, la sua voce gracile, l'accento suo straziante e quella specie di infiacchimento fisico e morale che spira da tutta la sua persona. Non è più un'artista che noi veggiamo, è un assistere veracemente agli ultimi aneliti d'una donna: quella è una vera agonia.
Io non so se l'arte debba o no andare tant'oltre; è una questione fuori di luogo adesso, e che fu ventilata più volte: certamente la verità non è arte, poichè questa non è che una "bella" imitazione di quella. Cionulladimeno quando l'arte tocca questa sublimità ci commove, ci rende ammirati e ci fa applaudire freneticamente, come si vede tutte le sere al Carignano. Questo terzo atto sarà sempre il trionfo di quelle cantatrici che l'eseguiranno, poichè il bello è nelle condizioni del personaggio e nelle ispirazioni musicali.
E' mestieri peraltro confessare che la Boccabadati ne trae, sì sotto l'aspetto drammatico come musicale, tutto il partito possibile. Se nella divina romanza: "Addio, del passato bei sogni ridenti", ci fa un poco desiderare la Piccolomini per freschezza di voce, ella la supera nella passione con cui la esprime. Forse sotto il riguardo estetico era assai migliore il modo con cui la cantava la Piccolomini, poichè questa sua romanza era come un "lucido intervallo", come un'oasi in mezzo a quel deserto di dolore e di cordoglio, l'ultimo bagliore d'una lampada che sta per ispegnersi fra poco; ed ora in bocca della Boccabadati è il gemito della moribonda, cupo, interrotto, fievole e disperato.
Pareva impossibile ai più che la nuova Violetta potesse superare l'altra nel momento quando manda pel medico, esclamando che vuol vivere, perchè il suo amante è ritornato, dove la Piccolomini sollevava tanto entusiasmo; eppure la Violetta presente trovò il modo di superarla, tanto la sua azione è giusta e spaventevolmente vera.
Anche nella morte la Boccabadati trovò un effetto nuovo: ella si solleva per poco, staccandosi dalle braccia de' suoi che la circondano, fa alcuni passi nella camera, pare che la vita le rifluisca nelle vene; un sorriso le sfiora le labbra, le risplende negli occhi; si direbbe che un raggio di paradiso le rifulga nel viso. Tutti la guardano stupiti ed attoniti, come dovesse sull'ala del suo pensiero sollevarsi leggera da questa valle dove ella tanto sofferse, come una bianca nuvoletta in sul tramonto del giorno. E' quello l'ultimo sforzo della povera creatura, che dopo quell'aspirazione cade sfasciata nelle braccia dell'amante.
Allora l'universale, tergendo le lagrime e soffocando i singhiozzi, manifesta la sua ammirazione con applausi interminati e con chiamate senza fine. Da ciò si può concludere che la Piccolomini aveva più natura e questa maggior arte; che quella indovinava spesso gli effetti, e questa li studia; quella era più sublime, questa più vera.
Nel complesso questa volta la "Traviata" è anche meglio eseguita per parte degli altri attori. Delle Sedie è un baritono che canta squisitamente e con accento pieno di affetto; Sarti è pure artista pregevole, perchè coscienzioso e zelante, e valse a dar risalto al duetto finale, una delle più felici ispirazioni dell'opera. Infine tutto concorre a rendere la "Traviata" gradita all'universale doppiamente, ricordando la Piccolomini e facendoci provare nuove soavi sensazioni.
Il teatro è affollato tutte le sere smisuratamente, e pare che l'entusiasmo vada crescendo da pareggiare quello dell'anno passato. (...)

M. MARCELLO.

--> N.B. « (...) Per fare il "Re Lear", finora non avete la compagnia adattata. La Penco (che è pure eccellente artista) non potrebbe farmi Cordelia come io l'intendo. Per questa parte non conosco che tre artiste: Piccolomini, Spezia, e Virginia Boccabadati. Tutte e tre hanno voce debole ma talento grande, anima e sentimento di scena. Eccellenti tutte nella "Traviata" [1] (...) Io sentirò qui la Piccolomini, e ve ne dirò qualche cosa. (...) »

(da una lettera di Giuseppe Verdi, scritta da Parigi l'11 novembre 1856, indirizzata a Vincenzo Torelli a Napoli)

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