Nelle opere più felici di Verdi tutto è "parola scenica", in fondo, anche il dettaglio infinitesimale.
In uno dei suoi numerosi elogi di Adelina Patti (a Giulio Ricordi, 5 novembre 1877) Verdi non ricorderà, del "Rigoletto" interpretato dal celebre soprano, l'esecuzione di "Caro nome" o di "Tutte le feste al tempio", ma "l'effetto sublime" dell' "Io l'amo" di Gilda allorché il padre, all'inizio del IV atto, mostrandole il Duca nella taverna, le chiede se l'ami ancora. Si tratta di tre sole note, semplicissime, elementari, vocalmente; eppure, a detta di Verdi, l'effetto era "sublime". In questo Verdi coincide con il rossiniano Stendhal, secondo il quale era soprattutto "l'infinitamente piccolo" (cioè la sfumatura) a distinguere il grande interprete dal pappagallo. E dunque il cantante incapace di sfumare e di valorizzare i dettagli non sarà mai "sublime" in Verdi.
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