L'ACCENTO CHE DISTINGUE LA VOCE VERDIANA
Chi, oggi, nel mondo dell'Opera, ricorda la voce del grande baritono piemontese che nulla ebbe da invidiare alle più grandi
voci di ogni tempo nel settore della stessa corda? (...) La discografia
non registra la straordinaria vitalità di quella voce che eseguì 70
opere di repertorio. Le grandi voci si rifiutano all'incapsulamento
della incisione. Il microfono dà vibrazioni alle voci esigue, e le
rifiuta alle insurrezionali. Quale aggeggio meccanico può riprodurre
fedelmente l'immensa risonanza della frase di "Amonasro": "Quest'assisa
ch'io vesto vi dica che il mio Re, la mia Patria ho difeso", con la
quale Viglione, con somma dignità e superba autorità, penetrava nelle
orecchie e nel cuore degli spettatori? Frase scolpita con vigoroso
accento in ogni parola, che a Parma suscitò sbalordimento di cui i
vecchi melomani non hanno ancora perduto la rimembranza nostalgica.
Bergson, sommo filosofo, afferma recisamente: "E' l'accento a dare valore a ciò che diciamo e a ciò che scriviamo. Ciò che stimo in un uomo è l'accento con il quale dice le cose". Altrettanto va detto circa il canto melodrammatico, specialmente per il repertorio verdiano. Una voce verdiana si distingue dalle altre appunto per l'accento, che mette in risalto situazioni drammatiche, di violenza quasi selvaggia, quali si riscontrano nella "Forza del destino", nel "Trovatore", nella "Luisa Miller". In quest'opera, ad esempio, Rodolfo scatta come folgore nella tremenda esplosione tragica: "Maledetto il dì ch'io nacqui, il mio sangue, il padre mio..." Senz'accento, senza dizione incisiva, tagliente, rovente, quel brano non ha valore. Non significa nulla. Viglione Borghese aveva innato il sapore, il gusto della parola cantata e declamata. Sempre, però, dentro della fonazione tecnica, nella legatura dei suoni, nell'aderenza al testo.
Bergson, sommo filosofo, afferma recisamente: "E' l'accento a dare valore a ciò che diciamo e a ciò che scriviamo. Ciò che stimo in un uomo è l'accento con il quale dice le cose". Altrettanto va detto circa il canto melodrammatico, specialmente per il repertorio verdiano. Una voce verdiana si distingue dalle altre appunto per l'accento, che mette in risalto situazioni drammatiche, di violenza quasi selvaggia, quali si riscontrano nella "Forza del destino", nel "Trovatore", nella "Luisa Miller". In quest'opera, ad esempio, Rodolfo scatta come folgore nella tremenda esplosione tragica: "Maledetto il dì ch'io nacqui, il mio sangue, il padre mio..." Senz'accento, senza dizione incisiva, tagliente, rovente, quel brano non ha valore. Non significa nulla. Viglione Borghese aveva innato il sapore, il gusto della parola cantata e declamata. Sempre, però, dentro della fonazione tecnica, nella legatura dei suoni, nell'aderenza al testo.
[da: G. Lauri-Volpi - "La gioia di cantare" (Le grandi voci della
lirica: Domenico Viglione Borghese) - Musica e Dischi, agosto 1974]
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